L’Elfo della Rosa (Andersen)

In mezzo ad un giardino cresceva un albero di rose, il quale ne era piuttosto ricolmo, e in una di esse, la più bella di tutte, viveva un elfo; era così piccolo che nessun occhio umano era capace di vederlo; dietro ognuno dei petali della rosa, egli aveva una stanza da letto; era benfatto e delizioso come nessun essere umano poteva esserlo, ed aveva le ali dalle spalle fino giù ai piedi.
Oh, com’erano profumate le sue stanze e com’erano nitide e belle le loro pareti! Erano infatti i delicati petali rosso pallido. Si sollazzava l’intera giornata nei caldi raggi del sole, svolazzando da un fiore all’altro, ballando sulle ali della farfalla in volo, e contava i passi che doveva fare per percorrere tutte le strade maestre e i viottoli che c’erano su un’unica foglia di tiglio.
Erano ciò che noi chiamiamo le nervature della foglia, che egli considerava come strade maestre e viottoli; eh sì, per lui erano strade senza fine! Prima che egli terminasse il sole era tramontato; aveva anche iniziato molto tardi.
Si fece tanto freddo, la rugiada cadde e il vento soffiò; ora era meglio tornare a casa; si affrettò più che poté, ma la rosa si era chiusa, non vi poté entrare; non una sola rosa era rimasta aperta; il povero piccolo elfo fu così spaventato, non aveva mai passato la notte fuori fino ad allora, aveva sempre dormito dolcemente dietro ai tiepidi petali della rosa, oh, sarebbe probabilmente stata la sua morte!
Dall’altro lato del giardino sapeva che c’era una capanna di fronde con dei bei caprifogli, i fiori sembravano corni dipinti: sarebbe sceso in uno di questi per dormire fino a domani. Volò laggiù.
Silenzio! All’interno vi erano due persone; un bel giovanotto e una meravigliosa fanciulla; erano seduti l’uno accanto all’altra e con la speranza di non doversi mai separare per l’eternità; si amavano tanto, molto più di quanto un bambino affettuosissimo possa amare sua madre o suo padre.
«Eppure ci dobbiamo dividere» disse il giovanotto «tuo fratello non ci vuole bene e perciò mi manda a fare questa commissione tanto lontano oltre i monti e oltre i mari! Addio mia cara sposa, perché questo sei tu per me nonostante tutto.»
Poi si baciarono e la giovane ragazza pianse e gli diede una rosa; ma prima di dargliela, vi impresse un bacio così deciso e così sincero che il fiore si aprì: ed ecco che il piccolo elfo prese il volo, vi entrò e posò la testa contro le delicate pareti profumate; però sentì bene che si dissero «Addio, addio!» e sentì che la rosa venne posata contro il petto del giovanotto. Oh, come il cuore vi batteva all’interno! Il piccolo elfo non riuscì per niente a dormire, per quanto batteva.
La rosa non rimase a lungo tranquilla contro il petto, il ragazzo la prese e mentre attraversava da solo il bosco tenebroso, baciava il fiore, oh, così spesso e con così tanta forza che il piccolo elfo stava per morire schiacciato: poté sentire attraverso il petalo il bruciore delle labbra dell’uomo, e la rosa stessa si era aperta come al sole fortissimo di mezzogiorno.
Venne allora un altro signore, scuro e corrucciato, era il fratello cattivo della bella ragazza; tirò fuori un coltello tanto affilato e tanto grande e mentre l’altro baciava la rosa, il signore cattivo lo accoltellò a morte, tagliò la sua testa e la seppellì insieme al corpo nella terra morbida sotto il tiglio.
“Eccolo sparito e dimenticato” pensò il fratello cattivo “non sarà mai più di ritorno. Doveva fare un lungo viaggio, oltre i monti e oltre i mari, vi si può facilmente perdere la vita e così è stato per lui. Egli non verrà mai più e a me, mia sorella non oserà mai chiedere di lui.”
Poi con i piedi ammucchiò un po’ di foglie secche sulla terra scavata e se ne ritornò a casa nella notte oscura; ma non procedeva da solo come egli pensava: il piccolo elfo lo seguì, stava in una foglia di tiglio secca e arrotolata, che era caduta nei capelli dell’uomo cattivo quando stava scavando la fossa. Poi sopra era stato messo il cappello, faceva tanto buio lì dentro, e l’elfo tremava dalla paura e dalla rabbia per un’azione così vile.
Nell’ora mattutina l’uomo cattivo tornò a casa; si tolse il cappello e andò nella stanza da letto della sorella; lì stava sdraiata la bella ragazza fiorente, che sognava colui che lei amava tanto e che lei pensava camminasse ora sulle montagne e attraverso i boschi; il fratello cattivo si chinò su di lei e rise vilmente come può ridere un demonio; ed ecco che la foglia secca cadde dai suoi capelli giù sul letto, ma egli non se ne accorse e uscì per dormire anche un po’ nelle ore mattutine.
Ma l’elfo saltò dalla foglia secca ed entrò nell’orecchio della ragazza che dormiva per raccontarle, come in un sogno, l’atroce omicidio; egli le descrisse il luogo dove il fratello l’aveva ucciso e aveva depositato il suo corpo, le raccontò del tiglio in fiore lì accanto dicendo: «Perché tu non creda che sia semplicemente un sogno ciò che ti ho raccontato, troverai sul tuo letto una foglia di tiglio secca!» ed ella svegliandosi la trovò.
Oh, com’ella pianse a calde lacrime! E non osava raccontare a nessuno il suo dolore. La finestra rimase aperta tutto il giorno, il piccolo elfo poté uscire in giardino senza difficoltà per raggiungere le rose e tutti gli altri fiori, ma non ebbe il coraggio di lasciare la sconsolata.
Sulla finestra vi era un albero di rosa che fioriva ogni mese, egli si mise in uno dei fiori e guardò la povera ragazza. Suo fratello veniva spesso nella stanza ed era tanto allegro e cattivo, ma ella non osava dire una parola sul suo cuore affranto. Appena venne la notte, ella uscì alla chetichella dalla casa, andò nel bosco fino al posto in cui c’era il tiglio, tirò via le foglie dalla terra, scavò in essa e trovò immediatamente colui che era stato ucciso.
Oh, come pianse! E pregò il Signore di poter morire anche lei ben presto. Avrebbe volentieri portato il cadavere a casa ma non poteva; allora prese la pallida testa con gli occhi chiusi, baciò la fredda bocca e scosse i bei capelli per toglierne la terra. «Questa la voglio possedere» disse, e dopo aver coperto il corpo senza vita di terra e di foglie, prese la testa e se la portò a casa con un ramicello di quell’albero di gelsomino, che fioriva nel bosco lì dove egli era stato ucciso.
Appena ella fu nella sua stanza, andò a prendere il più grande vaso da fiori che poté trovare, e in esso depose la testa del morto con sopra la terra; e poi piantò il ramo di gelsomino nel vaso.
«Addio, addio…» sussurrò il piccolo elfo, non potendo più sopportare la vista di tanto dolore, e se ne andò via volando fuori nel giardino per raggiungere la sua rosa; ma essa era appassita, lungo la coccola verde pendevano soltanto alcuni petali pallidi.
«Ahimè! Come sta per finire tutto ciò che è bello e tutto ciò che è buono!» sospirò l’elfo. Alla fine ritrovò una rosa che diventò la sua casa, dietro ai suoi delicati petali profumati poteva costruire e vivere.
Ogni mattina volava alla finestra della povera ragazza ed ella stava sempre al vaso piangendo; le lacrime amare cadevano sul ramo di gelsomino e come lei ogni giorno diventava sempre più pallida, il ramo si faceva sempre più fresco e più verde, venivano fuori un germoglio dopo l’altro, apparivano i piccoli boccioli bianchi dei fiori ed ella li baciava, ma il fratello cattivo brontolava chiedendo se fosse diventata folle? Non gli piaceva e non poteva capire perché ella piangesse sempre sopra quel vaso coi fiori.
Egli infatti non sapeva quali occhi erano stati chiusi e quali labbra rosse erano state trasformate lì in terra; ed ella chinò la testa appoggiandola al vaso coi fiori, e il piccolo elfo della rosa la trovò così sonnecchiando; allora penetrò nel suo orecchio, le raccontò della sera nella capanna di fronde, del profumo della rosa e dell’amore degli elfi; ella fece un dolcissimo sogno e mentre sognava la vita svanì; era morta di una dolce morte, era nel cielo insieme a colui che le era caro.
E i fiori del gelsomino aprirono le loro grandi campanelle, erano profumate in maniera tanto deliziosa: non avevano altri modi per piangere la morta. Ma il fratello cattivo guardava il bell’albero in fiore, se lo prese come un’eredità e se lo mise in camera da letto, vicinissimo al letto poiché era bello da vedere e il suo profumo era dolce e soave.
Il piccolo elfo della rosa lo accompagnò volando da un fiore all’altro, in ciascuno di essi infatti vi era una piccola anima e a questa egli raccontò del giovane ragazzo ucciso, la cui testa ora era terra sotto la terra, raccontò del fratello cattivo e della povera sorella.
«Lo sappiamo!» dissero tutte le anime dentro ai fiori «lo sappiamo! Non siamo noi cresciute dagli occhi e dalle labbra del ragazzo ucciso! Lo sappiamo! Lo sappiamo!” e poi fecero con la testa un cenno tanto strano.
L’elfo della rosa non fu capace di intendere come potevano rimanere tanto tranquille, e se ne andò volando a trovare le api che stavano raccogliendo il miele, raccontò loro la storia del fratello cattivo e le api la dissero alla loro regina, la quale comandò che l’indomani mattina tutte quante avrebbero dovuto uccidere l’assassino.
Ma la notte precedente, fu la prima notte dopo la morte della sorella, quando il fratello dormiva nel suo letto vicinissimo all’albero di gelsomino profumato; ognuno dei calici dei fiori si aprì e le anime dei fiori uscirono, invisibili ma con lance velenose, e si posero prima vicino al suo orecchio raccontandogli sogni cattivi, poi passarono a volo sulle sue labbra pungendo la sua lingua con le lance velenose.
«Ora abbiamo vendicato la morta!» dissero e tornarono indietro nelle campanelle bianche del gelsomino.
Quando la mattina arrivò e la finestra della camera da letto venne aperta bruscamente, l’elfo della rosa con l’ape regina e tutto lo sciame delle api si precipitarono all’interno per ucciderlo. Ma egli era già morto; c’era gente in piedi intorno al letto che diceva: «Il profumo del gelsomino l’ha ucciso!»
L’elfo della rosa intuì allora la vendetta dei fiori e lo raccontò all’ape regina, la quale con tutto il suo sciame ronzò intorno al vaso coi fiori; fu impossibile cacciare via le api; allora un signore portò via il vaso coi fiori, e una delle api punse la sua mano sicché egli fece cadere il vaso che si ruppe. Videro allora la testa bianca del morto e capirono che il morto nel letto era un assassino.
E l’ape regina ronzava nell’aria e col suo canto raccontava la vendetta dei fiori e dell’elfo della rosa, e diceva che anche dietro al petalo più piccolo, c’è qualcheduno capace di raccontare e di vendicare la cattiveria!

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Le Dame Verdi della collina

(Leggenda Inglese)C’era una volta, una collina su cui si ergevano tre grandi alberi, e nelle notti di luna piena, capitava di udire dei canti e di scorgere tre Dame verdi danzare.
Nessuno osava avvicinarsi ad essa, eccetto un contadino che ogni anno, prima che calasse la notte di mezza estate, saliva sulla collina per deporre delle primule ai piedi dei tre alberi. Le foglie stormivano, il sole brillava e il contadino, per sicurezza, faceva sempre in modo di rincasare prima che facesse buio.
Possedeva una fattoria assai produttiva, e di sovente narrava ai suoi tre figlioli: «Mio padre mi diceva sempre che la nostra fortuna sta lassù; quando sarò morto non dimenticate di fare come me, come fece mio padre prima di me, e come fecero tutti i nostri avi.»
I ragazzi lo ascoltavano, eppure non lo prendevano troppo sul serio, tranne il più giovane. Allorché il padre ormai vecchio morì, la fattoria venne divisa in tre parti: il fratello maggiore si prese quella più grande, il secondo una parte più piccola, e il più giovane si dové accontentare di una fascia di terreno arido ed impervio, situato ai piedi della collina. Invece di lamentarsi, iniziò a lavorare la terra di gran lena, cantando. Ogni sera, prima del tramonto, rientrava a casa.
Un giorno i due fratelli andarono a trovarlo. Le loro grandi fattorie non rendevano bene, e nel momento in cui videro il piccolo campo d’orzo così rigoglioso, i pochi alberi così carichi di frutta, le verdure così verdi e deliziosamente profumate, furono rosi da un’opulenta invidia.
«Chi ti aiuta nel tuo lavoro?» chiesero. «Dicono giù al villaggio, che qui la notte si canta e si balla. Un contadino che lavora sodo, la notte dovrebbe essere a letto.»
Il giovane non rispose e continuò a lavorare.
«Eri tu quello che abbiamo visto sulla collina vicino agli alberi, mentre venivamo qui? Cosa stavi facendo?»
«Facevo quello che nostro padre ci aveva raccomandato di fare ogni anno, questa è la notte di mezza estate» rispose tranquillamente il ragazzo.
I fratelli erano davvero molto arrabbiati.
«La collina è mia!» urlò imbufalito il maggiore. «Che non ti veda mai più lassù! E per quanto riguarda gli alberi, ho giusto bisogno di legname per costruire il mio nuovo granaio. Domani ne taglierò uno, e voi due mi aiuterete.»
Ma il secondo fratello, disse che l’indomani sarebbe dovuto andare al mercato; il più giovane tacque.
Il giorno seguente, il giorno di mezza estate, il fratello maggiore salì sulla collina con i suoi braccianti muniti di asce, e interpellò il fratello minore, che stava lavorando nell’orto, affinché venisse ad aiutarlo.
Per tutta risposta, egli lo ammonì: «Rammentati che giorno è oggi!»
Il maggiore non gli badò, e si avviò su per la collina alla volta dei tre alberi.
Appena colpì con l’ascia il primo dei tre alberi, si udì un riecheggiante grido di donna: i cavalli e i braccianti fuggirono spaventati, ma egli proseguì il suo lavoro.
Il vento fischiava, gli altri due alberi agitavano furiosamente le fronde, e ad un tratto l’albero colpito, cadde sul contadino e lo uccise.
I braccianti tornarono sulla collina, per portar via il cadavere del padrone e l’albero abbattuto; da quel giorno, nelle notti di luna piena, si videro solo due Dame danzare sulla collina.
Il secondogenito decise di occuparsi della fattoria del fratello deceduto, mentre il più giovane seguitò a lavorare la sua fascia di terra, e alla vigilia di mezza estate non dimenticava mai di portare primule, ai piedi degli alberi sulla collina. La grande fattoria però non prosperava, e una vigilia di mezza estate, mentre il secondogenito si recava dal fratello minore, lo scorse sulla collina, nei pressi dei due alberi.
Non osando salire, da lontano gli urlò: «Lascia immediatamente la mia terra e porta via le tue mucche che danneggiano il mio steccato! Costruirò un nuovo, solido recinto intorno alla mia collina, e abbatterò uno degli alberi per procurarmi il legname.»
Quella notte, non ci furono né canti né balli sulla collina, ma solamente il pianto di numerose foglie; il più giovane dei fratelli, era molto triste.
Il mattino seguente, il secondo fratello salì sulla collina con la scure e gli alberi rabbrividirono; assicuratosi che non ci fosse vento, il quale avrebbe potuto fargli cadere l’albero addosso, colpì il tronco con grande forza. Cadendo, l’albero gridò con voce di donna, e il fratello minore, che osservava la scena dal sentiero lungo il campo dove pascolavano le sue mucche, vide l’albero superstite colpire con un ramo il fratello, uccidendolo.
Il più giovane divenne così padrone delle tre fattorie, eppure continuò a vivere nella più piccola, vicino alla collina e alla solitaria Dama verde. A volte, nelle notti di luna piena, si udiva una malinconica melodia provenire dalla collina. Ogni vigilia di mezza estate, il giovane depositava un mazzo di primule tardive ai piedi dell’ultima Dama verde, e le sue fattorie prosperavano.
Ancora oggi molta gente, anche senza conoscere questa storia, non ha il coraggio di salire sulla collina dal solo albero, specialmente la notte di mezza estate. Soltanto alcuni vecchi rammentano di aver sentito dire, durante la loro infanzia, che la collina non sarebbe mai dovuta essere recintata, perché apparteneva ad una Dama verde.
Ora la collina e l’albero sono soli, in quel luogo triste e pericoloso.

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Le Dodici Fate

Si narra che, tanto tempo fa, sul monte Ineu vivevano dodici Fate. La cittadella in cui dimoravano, era tutta fatta d’ambra, le porte avevano stipiti d’oro e d’argento, ed erano adorne di magnifiche sculture.
Le Fate erano così belle, splendide, che chiunque le guardasse in volto, diventava folle d’amore e vagava sulle loro tracce, finché non era completamente fuori di sé. La loro signora, la Principessa delle Fate, non aveva pari: la sua voce era così dolce ed incantevole, che i pastori, quando guidavano le greggi alle falde del monte e la udivano cantare nelle sere di luna piena, rimanevano ammaliati e non potevano più dormire la notte.
Da quelle parti abitava anche un cacciatore, giovane ma molto famoso, di nome Valer. Questi fece una scommessa con altri giovani, vantandosi d’essere in grado di rapire la Principessa delle Fate e prenderla in moglie. Tuttavia, il suo restava un semplice desiderio, perché le fate erano custodite da due giganti, ciascuno dei quali aveva un solo occhio sulla fronte; erano brutti e deformi entrambi, ma abbastanza forti per spezzare il tronco d’un albero senza sforzarsi più del dovuto. Giorno e notte facevano la guardia intorno alla cittadella, a turno, e ciascun essere umano era minacciato di morte, qualora avesse osato accostarsi alle mura.
Le dodici Fate, ogni anno, rapivano dodici giovani uomini dai villaggi vicini, e danzavano con loro per tutta la notte, fino al primo canto del gallo. Allorché erano esauste per la danza, arrivavano i giganti, con l’ordine di scagliare i giovanotti oltre le mura della cittadella, affinché dei loro corpi restasse solamente qualche brandello. Alcuni, i più fortunati, ne uscivano storpi, con la spina dorsale rotta e variamente mutilati, tanto che suscitavano pietà e commiserazione.
Valer, visto come andavano le cose, decise di stare in agguato, fintanto che i giganti dal petto taurino, non fossero colpiti dalla punta avvelenata delle sue frecce. E questa occasione, non tardò a presentarsi.
Un giorno di calda estate, le Fate erano uscite per bagnarsi nelle acque del lago Lala, e i due giganti ricevettero l’ordine di vigilare fuori dalle mura della cittadella, così nessuno le avrebbe osservate, mentre giocavano e guazzavano nude nelle onde.
Valer non esitò. Si appressò alla cittadella più che poté, fermandosi ad ogni passo dietro tronchi di alberi per non farsi scorgere; non appena giunse fosse il momento opportuno, incoccò una freccia aguzza, con la punta d’acciaio, e saettò il gigante di destra nel bel mezzo del torace. Il dardo penetrò direttamente nel cuore, sicché il gigante, senza poter dire né haibai, rovinò a terra in un lago di sangue.
Valer adattò un’altra freccia alla corda dell’arco, e scoccò pure questa nel petto del secondo gigante. Ebbe identica fortuna ed uccise anche costui. Se non li avesse centrati giusto nel cuore, guai a lui: lo avrebbero soffocato come una cornacchia appena nata. Poi entrò nella cittadella, e dalla riva del lago spiò le Fate che si bagnavano, trattenendosi con gli occhi sgranati per la loro bellezza; poi, di soppiatto, veloce come un fulmine, rubò la veste della principessa.
Le altre Fate, accortesi del pericolo, si trasformarono in colombe e spiccarono il volo verso occidente; rimase lì soltanto la principessa, la quale non cessava di implorare Valer che le restituisse le vesti, promettendogli in cambio tesori e beni di grande valore. Ma lui non la ascoltava neppure. Non gli importava nulla né della sua preghiera né delle sue lacrime, men che meno della sua angoscia, e non rispondeva a nessuna domanda: in questo modo gli avevano insegnato le vecchie sagge del villaggio, esperte di magia, “non bisogna parlare con le Fate né restituire loro le vesti, se le si vuole privare del potere di nuocere”.
Dato che col giovane non c’era nulla da fare, la Fata alla fine si calmò, accettò pian piano la sua compagnia. Sembrava che si fosse abituata a vivere con lui, tanto più che Valer era un ragazzo assai bello e bravo, la aiutava, faceva di tutto per lei, le procurava selvaggina fresca e le dava una mano a cucinare; soltanto, non parlava e non mostrava il luogo in cui aveva nascosto la veste incantata. Provvide lui a confezionarle altre vesti graziose; ma con quelle, essa non poteva stregare nessuno, perché non avevano nessun potere magico. Così passarono i giorni, le settimane, i mesi.
Dopo nove mesi, la Principessa delle Fate diede alla luce un bimbo dai capelli d’oro, bello come un sogno. Valer era estremamente felice, si era follemente innamorato, e sembrava felice anche lei, quando vedeva cinguettare quella creaturina leggiadra che le assomigliava perfettamente, nel viso e in tutta la figura.
Ciononostante, a volte essa veniva improvvisamente colta da una grande tristezza, da una gran pena; allora iniziava a cantare, fino a che valli e monti non risonavano del suo canto. Quando cantava con più ardore, giungevano le undici colombe, le sue sorelle, a posarsi sulle mura della cittadella; la principessa di un tempo usciva a mostrar loro il bambino, dentro una cuna d’abete. Esse lo osservavano a lungo, come se si trattasse di un’apparizione, poi scuotevano il capo e ripartivano verso il loro segreto paese.
Una sera Valer tornò a casa più stanco del solito, era corso dietro ad alcune capre nere ed era riuscito a colpirne una sola, mentre le altre si erano dileguate all’ombra delle rupi montane. Andò a coricarsi subito, dimenticando di nascondere per bene la veste della fata, che portava addosso notte e dì, cinta alla sua vita, affinché lei non gliela rubasse.
La Principessa delle Fate, avvistando ai fianchi di Valer la veste dal magico potere, trasalì. Le rinacque nell’anima il desiderio di raggiungere il mondo dell’isola marina, presso le sorelle che la attendevano con la madre e il padre, Re del Mare. Lo accarezzò e si diede da fare, fino a quando riuscì a svolgere la veste e ad indossarla.
Adesso era potente. Poteva ucciderlo con un solo cenno; ma il bimbo le sorrideva nel sonno, così dolcemente che essa perdonò Valer per tutto il male che le aveva arrecato. Gli scrisse un biglietto: “Ti lascio il bimbo e la vita. Vado dai miei genitori. Non potrai ritrovarmi, mai più. Con la mia partenza, la cittadella sprofonda nelle tenebre. Costruisci una capanna o trova una grotta, e rifugiatevi là dentro. Se avrò nostalgia del bimbo, verrò a vedervi.”
La cittadella fu inghiottita dalla terra, e fu come se non fosse mai esistita. La Principessa delle Fate si trasformò in una colomba, e si diresse in volo verso il paese dei suoi cari. Il povero Valer, destandosi il giorno seguente sulla riva del lago Lala con il bambino accanto a sé, rimase atterrito. Lesse il biglietto e si percosse la fronte col palmo della mano, rimproverandosi di non aver bruciato la veste di lei, per impedirle di abbandonarlo.
Cercò una grotta come rifugio per il bambino, e gli approntò un lettuccio composto di morbide pelli di animali. Trovò poi una capretta e la portò nella grotta, col suo caprettino, affinché allattasse, oltre al suo piccolo, anche il bambino. I due piccoli poppavano quindi l’uno accanto all’altro, e Valer correva tutto il giorno per procurare il cibo alla mite capretta.
I giorni passavano gli uni dopo gli altri, ma la pena del cacciatore era sempre infinita. Non aveva voglia di dormire né di mangiare, e la sua anima era colma di amarezza. Aveva nostalgia della sua sposa. Ma non era ancora trascorso un mese, che la Principessa delle Fate tornò da lui e gli disse: «Da oggi puoi parlare con me. La nostalgia del mio bimbo mi ha piegata, e mi ha indotto a lasciare i miei genitori. A partire da oggi, resterò sempre accanto a voi.»
Valer cadde in ginocchio e le baciò la mano ringraziandola, felice come non mai.
Con le pietre preziose che essa aveva portato, costruirono un bellissimo castello, dove vissero fino alla tarda vecchiaia, nella felicità e nell’amore perfetto.
Le undici colombe venivano una volta all’anno, menando doni al bambino e lettere del padre a lei; il bambino cantava meravigliose canzoni, perché aveva ereditato dalla mamma, il dono del canto.

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Le Fate (Perrault)

 

traduzione di Carlo Collodi da “I racconti delle Fate”

 

C’era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somigliava tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impossibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo… e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l’eguale.
E naturalmente, poiché ogni simile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggiore; e sentiva per quell’altra un’avversione, una ripugnanza spaventevole. La faceva mangiare in cucina, e tutte le fatiche e i servizi di casa toccavano a lei. Fra le altre cose, bisognava che quella povera ragazza andasse due volte al giorno, ad attingere acqua a una fontana distante più d’un miglio e mezzo, e ne riportasse una brocca piena.
Un giorno, mentre stava appunto lì alla fonte, le apparve accanto una povera vecchia che la pregò in carità di darle da bere.
«Ma volentieri, nonnina mia…» rispose la bella fanciulla «aspettate; vi sciacquo la brocca.» E subito dette alla mezzina una bella risciacquata, la riempì di acqua fresca, e gliela presentò sostenendola in alto con le sue proprie mani, affinché la vecchiarella bevesse con tutto il suo comodo.
Quand’ebbe bevuto, disse la nonnina: «Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, figliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono.»
Quella era una Fata, che aveva preso la forma di una povera vecchia di campagna per vedere fin dove arrivava la bontà della giovinetta. E continuò: «Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai, ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa.»
La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo.
«Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa…» disse la figliuola tutta umile, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due brillanti grossi.
«Ma che roba è questa!» esclamò la madre stupefatta. «Sbaglio o tu sputi perle e brillanti! O come mai, figlia mia?» Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono affettuoso.
La fanciulla raccontò ingenuamente quel che le era accaduto alla fontana; e durante il racconto, figuratevi i rubini e i topazi che le caddero già dalla bocca!
«Oh, che fortuna…» disse la madre «bisogna che ci mandi subito anche quest’altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono? Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera.»
«E non ci mancherebbe altro!» rispose quella sbadata. «Andare alla fontana ora!»
«Ti dico che tu ci vada, e subito!» gridò la mamma.
Brontolò, brontolò; ma brontolando, prese la strada portando con sé la più bella fiasca d’argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l’infingardaggine!
Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d’acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell’altra sorella; ma aveva preso l’aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la malcreanza di quella pettegola.
«O sta’ a vedere» rispose la superba «che son venuta qui per dar da bere a voi! Sicuro! Per abbeverare vostra Signora, non per altro! Guardate, se avete sete, la fonte eccola lì.»
«Avete poca educazione, ragazza» rispose la Fata senza adirarsi punto «e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi vi esca di bocca un rospo o una serpe.»
Appena la mammina la vide tornare da lontano, le gridò a piena gola: «Dunque, Cecchina, com’è andata?»
«Non mi seccate, mamma!» replicò la monella; e sputò due vipere e due rospacci.
«O Dio! che vedo!» esclamò la madre. «La colpa deve essere tutta di tua sorella, ma me la pagherà.» E si mosse per picchiarla.
Quella povera figliuola fuggì via di rincorsa e andò a rifugiarsi nella foresta vicina.
Il figliuolo del Re che ritornava da caccia la incontrò per un viottolo, e vedendola così bella, le domandò che cosa faceva in quel luogo sola sola, e perché piangeva tanto.
«La mamma…» disse lei «m’ha mandato via di casa e mi voleva picchiare…»
Il figliuolo del Re, che vide uscire da quella bocchina cinque o sei perle e altrettanti brillanti, la pregò di raccontare come mai era possibile una cosa tanto meravigliosa. E la ragazza raccontò per filo e per segno tutto quello che le era accaduto.
Il Principe reale se ne innamorò subito, e considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un’altra donna, la condusse senz’altro al palazzo del Re suo padre e se la sposò.
Quell’altra sorella frattanto si fece talmente odiare da tutti, che sua madre stessa la cacciò via di casa; e la disgraziata dopo aver corso invano cercando chi acconsentisse a riceverla andò a morire sul confine del bosco.

 

MORALE
Gli smeraldi, le perle, ed i diamanti abbaglian gli occhi col vivo splendore;
ma le dolci parole e i dolci pianti, hanno spesso più forza e più valore.

 

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ALTRA MORALE
La cortesia che le bell’alme accende, costa talora acerbi affanni e pene;
ma presto o tardi la virtù risplende, e quando men ci pensa il premio ottiene.

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L’Ultimo Unicorno

La sua mamma le aveva sempre detto di non allontanarsi troppo; la foresta era ricca di misteri che non potevano essere compresi e di pericoli dai quali era difficile scappare. La curiosità e la voglia di raccogliere i fiori più belli per farle un regalo, tuttavia, spinsero Alys a non rispettare il divieto.
Lasciò il sentiero principale e s’inoltrò tra una serie di alberi che, in una giornata di sole limpida come quella, non avevano un aspetto minaccioso, anzi, sembravano invitarla a procedere, rassicurandola. La bambina raggiunse ben presto un’ampia radura, il verde del manto erboso riluceva alla luce solare ed era adornato da una miriade di fiori di ogni forma e colore. Il bianco delle margherite si alternava al viola dei fiordalisi, al tenue azzurrino dei Nontiscordardimè, fino al giallo chiaro delle primule. La primavera era la sua stagione preferita, i prati si riempivano di tutti questi colori e lei adorava raccogliere fiori per adornare la loro casetta nei pressi della foresta. Tuttavia, non aveva mai visto un luogo così pregno di colori di ogni genere e i suoi occhi s’illuminarono di colpo.
Dopo un primo momento di pura estasi, iniziò a correre a piedi nudi sul manto soffice del prato, guardando meglio quei fiori così da scegliere il più adatto per la sua mamma. Era molto indecisa sulla scelta, ma alla fine optò per un bel mazzo di fiordalisi. Iniziò a raccoglierli con cura, mentre canticchiava serena una dolce nenia.
I minuti passarono in fretta, trasformandosi ben presto in ore, e la luce dorata del sole lasciò ben presto il posto alle tonalità violacee del crepuscolo. Si stava facendo molto tardi ed Alys decise che era meglio tornare subito indietro, prima che il buio totale la sorprendesse e non riuscisse a trovare più la strada di casa.
Avanzò più cauta cercando di rammentare la strada dapprima intrapresa, ma la foresta le appariva più minacciosa e gli alberi, in un primo tempo accoglienti, ora sembravano mostri dalle lunghe braccia pronti a stritolarla non appena vi fosse passata accanto. Il suo cuore prese a battere con furia accecante, mentre strinse a sé quei fiori raccolti come nel vano tentativo di proteggerli e proteggersi.
Più avanzava, più non riusciva a rammentare quella strada. Era passata davvero di lì? Oh, non era così che la ricordava… Decise di non perdersi d’animo e scelse un’altra via, ma neanche quella sembrava giusta. Era come perdersi all’interno di un labirinto senza uscita, ma come le era stato raccontato nelle storie, ogni labirinto ne aveva una e doveva assolutamente trovarla.
Altri minuti scorrevano impertinenti. Il tempo sembrava accelerare come a volersi prendere gioco di lei. Alys iniziò ad avere davvero paura, ogni minimo rumore la faceva sobbalzare; si guardava intorno, come se temesse che, da un momento all’altro, spuntasse fuori un lupo affamato o magari dei briganti. A lungo avevano narrato di avvenimenti infausti per chi si fosse addentrato nella foresta di notte. Oltre ai normali pericoli di animali o uomini minacciosi, spesso avevano sentito i lamenti incessanti di strane creature, forse spiriti dei morti che non avevano avuto una regolare e santa sepoltura, o chissà che altro. Al sol pensiero il suo esile corpicino, fasciato da un abitino bianco, iniziò a tremolare come una fragile foglia colpita da un vento spietato.
Infine la notte giunse. Non c’erano più luci a illuminare il luogo, se non le tenui stelle e un pallido stralcio di luna, che sembrava sorridere come divertita dalla situazione della bambina. Alys era ormai stremata. Aveva fame, aveva paura, ed era ormai consapevole che non avrebbe trovato l’uscita di quella sorta di labirinto. Aveva perso in quel gioco.
Calde lacrime sgorgarono dai suoi occhi castani, mentre cercava ancora di chiamare, come tante volte aveva provato, invano, quella, sua madre: «Mamma, mamma mia…» Ora la sua voce si era ridotta ad un suono flebile, impercettibile. Si lasciò cadere a terra, sprofondando in quel manto erboso che ora appariva del tutto nero, non c’era più quel verde chiaro che tanto le piaceva. L’oscurità notturna aveva inghiottito tutto, la notte era diventata la Signora del luogo.
I fiori, raccolti poche ore innanzi con tanta cura, ora scivolarono dalle sue mani, atterrando sparpagliati a terra. Non le importava più. Si era spinta troppo oltre per essi e ora si trovava in un grande pericolo. Si raggomitolò a terra, avvolgendo il suo corpo con le braccia, come nel vano tentativo di proteggersi ed attenuare la paura, ma il suo corpo continuava a muoversi per i singhiozzi causati da lacrime incessanti. Non seppe quanto tempo restò in quella posizione, ma a farla “ridestare” fu il borbottìo proveniente dal suo stomaco. Era molto piccola, sette tenere estati, tuttavia la disperazione spesso smuoveva anche i bambini. Si alzò da terra, cercando di intravedere se ci fosse un qualche cespuglio intorno a lei. Suo padre spesso tornava a casa con della frutta o delle strane bacche, simili a mele minuscole, che erano molto gustose. Il tenue fascio di luce della luna le lasciava vedere fin poco, ma poteva bastare per muoversi un minimo.
Avanzò il più silenziosamente possibile, cercando dei cespugli o degli alberi bassi ove avrebbe potuto forse arrampicarsi, e alla fine sembrò quasi che la fortuna per una volta, in quella sera, fosse dalla sua parte. Un fascio di luce illuminava un cespuglio colmo di bacche, di cui però non poteva vedere il colore. Si fermò, per un attimo titubante, ma poi l’ennesimo borbottìo del suo stomaco la spinse a prendere una decisione. Allungò una manina, facendo attenzione a prenderle senza farsi male, e ne portò due alla bocca, mangiandole con foga. Il sapore era diverso da quelle che conosceva, tuttavia era ugualmente gustoso e in parte attenuava la gran fame che aveva. Ne prese altre ed iniziò a trangugiarle con gusto, fino a quando il suo stomaco sembrò chetarsi.
La foresta sembrava silenziosa. Forse sarebbe stata fortunata, forse poteva rimanere lì vicino al cespuglio per una notte e alle prime luci avrebbe fatto ritorno a casa. Chissà com’era preoccupata la sua mamma…
Con quel pensiero si addormentò a terra, fino a quando un dolore allucinante sconvolse il suo stomaco. Si ritrovò a gemere, mentre si accartocciava su se stessa, premendo forte le sue mani sulla pancia come per smorzare il dolore. Impallidì visibilmente divenendo del colore dell’abitino indossato, tanto che se qualcuno l’avesse vista in quello stato l’avrebbe scambiata per un fantasma. Per un attimo temé di morire davvero, cercò di muoversi ma invano.
«Mamma… fa male, mamma aiutami…» gridò tra un gemito e l’altro.
All’improvviso dall’oscurità emerse una candida e limpida luce. Alys spalancò appena gli occhi, mentre giaceva a terra con la schiuma alla bocca e le braccia ancora attorcigliate al busto. Era quello il paradiso tanto decantato dai preti e dai frati intravisti nella sua breve vita? Era dunque morta? Ben presto, tuttavia, trovò le risposte alle sue domande.
Da quella luce bianca emerse una figura. Non era tuttavia una forma umana, simile ad un angelo, bensì assomigliava ad un cavallo di modeste dimensioni, di un bianco lucente simile a perla, due occhi piccoli e blu e… un lungo corno che spuntava dalla fronte. Sbatté le palpebre più volte, incredula, ma non riuscì a proferire parola. Sentiva le forze venir meno e credeva che ormai fosse finita per lei. Forse ad ognuno giungeva uno spirito diverso.
Lo strano ma bellissimo cavallo le si avvicinò. In un primo momento sembrò titubante, poi porse il muso annusandola un poco. Nitrì un suono simile ad un magico canto e lei socchiuse gli occhi, come a volersi beare di tanta bellezza. Poi, la creatura magica posò il candido e particolare lungo corno sulla sua fronte, e per un attimo Alys si ritrovò a gridare. Una luce accecante, di un bianco opalescente, si liberò dalla sua fronte, e pian piano iniziò a tingersi di colori più scuri: dapprima divenne grigia, poi assunse le tonalità della notte. Alys si accorse che nel mutar il colore, il dolore veniva meno. La stava guarendo!
Incredula lo lasciò fare, ma alla fine di quell’atto, proprio quando la creatura si staccò da lei, si ritrovò priva di energia ma anche di dolore, e perse del tutto i sensi. La madre di Alys non riuscì a spiegare alla figlioletta come ella fosse tornata a casa, e neanche lei riusciva a rammentare quel che fosse successo dopo quello strano incontro. Il buio l’avvolse completamente, ma alla fine venne ritrovata riversa a terra proprio dinnanzi alla porta della sua dimora.
I suoi genitori avevano pianto lacrime di gioia nel vedere che la loro piccola era di nuovo a casa, ancora viva. Suo padre la prese tra le braccia e venne adagiata sul suo semplice letto di legno e paglia.
Quando Alys riaprì gli occhi, non riuscì a comprendere nulla, ma il solo vedere gli sguardi luminosi, seppur stanchi, dei suoi genitori le fece dimenticare tutto il resto.
Una volta che fu completamente sveglia e sazia, raccontò tutto ciò che ricordava, fino alla magica figura animale e forse divina che le aveva salvato la vita. I suoi genitori erano increduli e temettero per qualche attimo nella sanità mentale della propria figlioletta, ma poi associarono il tutto alla sua immensa fantasia e probabilmente alle bacche velenose che aveva mangiato e che forse le avevano causato allucinazioni.
Dopo i primi tentativi di farli ragionare, Alys desisté, ma sprofondò nella tristezza al pensiero che da quel giorno in avanti le fu impedito di tornare nella foresta. Nonostante la terribile avventura, voleva rivedere quel magico cavallo bianco dal lungo corno, voleva saperne di più ma decise di ascoltare il divieto. Non voleva star male, né far soffrire di nuovo i suoi amati genitori.
Passarono i giorni e poi divennero mesi. Ben presto Alys riuscì a porre in un angolo del suo cuore quel suo desiderio e sembrò dimenticare quell’incontro. Altre dieci primavere trascorsero senza che lei potesse tornare da sola nella foresta. Ormai quella notte era diventata per lei solo uno sbiadito ricordo, o almeno così credeva. Era ormai diventata una giovane donna; il suo corpo, seppur ancora esile, mostrava delle forme desiderabili, tanto che molti uomini avevano notato ben presto la sua figura. I capelli castani si erano allungati, raggiungendo, quando sciolti, la vita, lisci e morbidi. Il suo volto aveva ancora tratti infantili: piccole labbra a bocciolo, occhi grandi e color delle nocciole, un grazioso naso all’insù. Aveva ricevuto già diverse proposte di matrimonio, ma non si sentiva ancora pronta a fare quel passo. I suoi genitori non la forzavano, sebbene nel loro cuore sperassero di vedere ben presto la loro figlia maritata e piccoli nipotini che scorazzassero intorno alla loro casa.
Un giorno, un giovane del villaggio venne a trovarla, con lo scopo forse di corteggiarla ed infiltrarsi nel suo cuore ancora del tutto puro nei riguardi dell’amore. Dopo qualche istante di esitazione Alys decise di acconsentire al suo invito di passeggiare insieme, e pian piano iniziarono ad inoltrarsi lungo il sentiero principale della foresta. Mentre il giovane parlava, Alys si limitava a rispondere solo quando ciò le era dovuto, ma spesso si perdeva ad osservare le armonie della natura, i suoi colori, le sue forme. Dopo anni era bello poter di nuovo passeggiare tra quegli alberi e su quel prato verde che sollevava l’odore diverso dei fiori.
Si ritrovarono in poco tempo proprio al centro della radura dove si era persa, e bastò un rapido sguardo per far salire alla memoria tutti i ricordi. Il giovane cercava di chiamarla, ma lei rimase immobile, sorda ad ogni parola, rumore o suono. Si rivedeva lì, ancora bambina, tutta gioiosa nel raccogliere i fiori, e poi impaurita quando la notte la colse quasi di sorpresa. Poi…
«Alys? Che succede, stai male?» chiese il giovane, azzardandosi a scuoterla un poco, delicatamente. Bastò quel gesto per far sfumare il sogno ad occhi aperti. Sbatté le palpebre più volte, prima di guardare il “compagno”.
«Io… stavo solo sognando…» mormorò confusa, mentre lui la guardava sconcertato. Forse ancora una volta sembrava pazza.
«Credo che sia meglio tornare indietro. Si sta facendo tardi, e forse sei stanca… Vieni.» La invitò con un gesto ad avanzare e lei non si oppose. Tornarono, quindi, in silenzio a casa.
Quella stessa notte, Alys non riuscì a dormire. Si girò molteplici volte sul letto, ma dinanzi a sé comparivano sempre i ricordi ben nitidi di quell’incontro. Decise di alzarsi e, cercando di fare il meno rumore possibile, prese un mantello scuro e se lo pose sulla semplice veste bianca usata per dormire. Portò con sé anche una lanterna, in modo tale da illuminarle il cammino. Aveva deciso di tornare lì. Di nuovo. Per comprendere, per sapere.
Lasciata la sua casa, si ritrovò ben presto sul sentiero principale. La notte era silenziosa ed in alto le stelle apparivano quasi sfocate di fronte alla luminosità fulgente della luna che appariva nella sua forma completa. Si fermò qualche istante, come impaurita, ma poi una strana forza, che non riusciva a comprendere, la spinse a proseguire. In pochi minuti giunse nel punto esatto in cui si era ritrovata nel pomeriggio, ed iniziò a guardarsi intorno.
Gli alberi, illuminati dalla luce lunare, apparivano meno minacciosi che in passato. Sotto i suoi piedi, i fiori sembravano essersi richiusi, dormienti. Si udiva solo il lento scrosciare del fiume a pochi passi dalla radura, e il lieve fruscìo del vento che sembrava sussurrare al suo orecchio. Restò immobile, presa da una strana eccitazione. Aveva voglia di rivedere quella creatura, di capire se tutto ciò che aveva visto fosse davvero frutto di allucinazioni o pazzia.
D’un tratto, però, il silenzio fu spezzato dal suono di mille voci. Sembrava come un canto non umano. Il vento si fece quasi più violento, sferzando sul suo viso e attraversando il suo mantello, facendola rabbrividire, indossando, al di sotto, solo quella veste leggera.
Un’altra folata s’intrufolò furtiva nella lanterna, munita di una semplice candela, che ben presto si spense. Alys non riuscì neanche a gridare per il terrore che l’avvolse. Lasciò cadere la lanterna e si guardò intorno, come nel cercare una via di fuga, ma i suoi piedi erano ben saldi a terra. Il suo cuore palpitò ferocemente in petto, il suo corpo tremò ulteriormente. Era di nuovo sola. Impaurita. Ancora una volta aveva commesso una vera follia. Eppure non scappò. Attese come nella speranza di incontrarlo di nuovo. Attese fino a che dal ruscello emerse una luce fievole, che pian piano si fece sempre più luminosa, assumendo diverse tonalità, come se tutti i colori del mondo volessero apparire uno dopo l’altro dinanzi ai suoi occhi. Restò a bocca aperta, gli occhi sgranati e il cuore che sembrava chiamare a sé la creatura magica, ma…
Ben presto la luce mutò, prendendo le sembianze di un essere quasi umano della sua altezza. Socchiuse gli occhi per qualche istante, cercando di vedere meglio oltre la luce accecante, fino a quando quella figura si fece più piccola, divenendo quasi una bambina dall’aspetto d’adulta. Alys non riuscì a dire parola alcuna. La figura minuta avanzò di qualche passo verso di lei, ma guardandola meglio, Alys rabbrividì ulteriormente di paura.
Quella che sembrava inizialmente una donna splendida, ora appariva come uno di quegli esseri fatati di cui tanto avevano parlato i menestrelli del villaggio, ma aveva un aspetto del tutto diverso dalle favolose Fate che tanto sognava di incontrare un giorno. Era simile a una donna molto bassa, completamente scura, dai lunghi capelli neri simili a radici intrecciate, che giungevano fino a terra. I suoi occhi, in netto contrasto con il resto del corpo, erano di un azzurro molto chiaro, che sembravano rifulgere. Non aveva piedi, bensì una fiamma bluastra simile ad un fuoco fatuo, che la faceva quasi sollevare dal terreno. Fiori di diversa natura adornavano i capelli ed avvolgevano il suo corpo come un vero vestito.
Si fermò appena a pochi passi di distanza, osservandola con quegli strani occhi luminosi. Alys voleva scappare, ma qualcosa nel volto della creatura fatata, l’attraeva. Poteva sembrare orrenda, diversa da tutto l’immaginario tipico delle Fate, sempre viste come splendide creature, ma quel volto così scuro e particolare sembrava sorriderle, rassicurante. Avvertiva uno strano potere in quel corpo così minuto ed un’immensa e antica saggezza.
«Infine sei giunta. In molti avevano creduto che avessi ormai dimenticato tutto, ma io ero convinta che questo giorno sarebbe arrivato. Non è possibile dimenticare un tale incontro, non è vero?»
Alys s’accorse che quella voce pacata e venata da una punta d’ironia apparteneva a quella creatura, sebbene non muovesse minimamente le labbra. Era un flusso di pensieri che veniva trasportato dal vento, ma era chiaro, trasparente come l’acqua e non sfuggevole. Non riuscì a rispondere, pietrificata.
«Il mio aspetto forse t’impedisce di parlare? A lungo gli uomini hanno sempre creduto che gli spiriti dei boschi, o quelle che voi chiamate “fate” fossero simili a donne dalla bellezza sublime, ma in quanti le hanno veramente vedute nel loro vero aspetto? Mi preferisci forse così?»
Alys stava per mormorare qualcosa, ma le fu impedito. Lo spirito chiuse di colpo gli occhi e in pochi istanti subì una vera e propria mutazione, assumendo l’aspetto di una donna più alta di lei, dai lunghi capelli scuri e mossi, la pelle olivastra e due occhi blu. La bocca scarlatta formava un sorriso malizioso, e il suo corpo formoso e prosperoso era appena coperto da una veste violacea cosparsa di fiori.
Alys non riusciva a credere ai suoi occhi. Quella creatura era incredibilmente splendida.
«Io…»
«Sì, noi spiriti possiamo mutare il nostro aspetto come vogliamo, anche se questo ci costa un dispendio notevole di energie, tuttavia dipende anche dal grado e dall’anzianità. È così che t’immaginavi una Fata, non è vero?»
Alys assentì, arrossendo appena e, dietro di lei, udì il suono d’innumerevoli risate, ma girandosi non vide nulla.
«Le mie sorelle e i miei fratelli amano prendersi gioco di te, a quanto pare.» Lo spirito sorrise divertito, come a farsi beffe di lei. «Se non ti dispiace, però, preferirei parlarti nella mia vera forma, giacché non è l’aspetto fisico di una persona a renderla migliore di altre, non credi?»
«Sono d’accordo con voi, nobile spirito… riuscì appena a dire, confusa, irritata dalle risate canzonatorie, ma anche affascinata da una tale magia.
«Nobile spirito, non è male essere appellata così, ma puoi parlare tranquillamente con me, come a una confidente, un’amica…» disse di nuovo la “fata”, riassumendo la sua vera natura.
«Oh, va bene» rispose Alys, torturando con le mani un lembo del suo mantello scuro, ma almeno si stava chetando un poco.
«Hai molte domande da fare, non è vero? Lo avverto. Come del resto io avrei molto da spiegarti, se tu vorrai starmi ad ascoltare.»
Alys si fece forza e, finalmente, cercò di modulare una frase intera senza esitazioni. «Se non sono indiscreta, posso sapere chi siete, oh, perdonami… chi sei esattamente?» Avrebbe voluto chiedere di lui, o forse anche quella volta quel nobile spirito aveva mutato aspetto, trasformandosi in uno splendido esemplare d’unicorno.
La “fata” proruppe in una risatina, come se avvertisse i suoi pensieri, e prese a muoversi a mezz’aria. «Io sono la figlia della Notte, mia amata madre che sorge al calar del sole. Sono la prediletta. Colei che può custodire in sé aspetti di tutti gli elementi della natura, nonché della Madre stessa. Il mio corpo è scuro come le tenebre, i miei capelli sono radici della terra. Un fuoco fatuo avvolge le mie gambe e mi solleva. Simili alle acque i miei occhi, ed un vento carezzevole la mia voce. Io sono Malìa e tu sei la piccola Alys, vero?»
Alys l’ascoltò con la dovuta attenzione e si ritrovò ad impallidire nell’accorgersi di essere di fronte non solo ad uno spirito, ma anche ad uno dei più potenti. La figlia della Notte. Inoltre, conosceva anche il suo nome!
«Sì, sono Alys, ma… come sai il mio nome? E… sei forse tu quel magnifico animale magico che mi apparve dieci anni fa?» chiese tutto d’un fiato, non volendo rimandare ciò che più le premeva, oltre ad altre mille domande, ovviamente.
La figlia della Notte rise, e ancora una volta per parlare non mosse minimamente le labbra. «Io so molte cose, bambina, sono a conoscenza di particolari del mondo che neanche il più anziano degli esseri umani sa. Ti ho vista qui, dieci primavere or sono, ma non ero io quell’unicorno. È vero, noi spiriti possiamo mutare forma a nostro piacimento, ma mai assumere l’aspetto del nostro animale più sacro e venerato.»
I suoi occhi scintillarono, mentre divenne più seria. Alys si sentì ulteriormente curiosa, avida di sapere. Chi era allora? Avrebbe potuto incontrarlo di nuovo?
«Io penso che Grympur sia felice di vederti di nuovo, finalmente» sorrise, ed una luce luminosa avvolse completamente la radura. Nell’attimo in cui Alys riaprì gli occhi, folgorata da quella luce intensa, lo vide. Grympur, l’Unicorno, era di nuovo dinanzi ai suoi occhi in tutto il suo magico splendore. Si sentì pervadere da un’emozione intensa, mentre lottava contro la tentazione di sfiorarlo.
«Alys.» Udì un suono molto dolce invocare il suo nome. Per un attimo si guardò intorno incerta, ma ben presto comprese che era proprio lui a parlarle.
«Puoi parlare e capire le mie parole?» chiese, incredula.
«Sì, posso farlo, ma solo con chi desidero» rispose Grympur, muovendo il capo e scuotendo la sua criniera avorio.
Alys sentì le gote accendersi e colorarsi di una tenue tinta rossastra per l’imbarazzo, o forse anche per l’onore che quella magica creatura le riservava. «Sono onorata che tu mi permetta di udire la tua dolce voce» disse, chinando appena il capo, come a volersi inchinare a cotanta importanza.
Per un attimo rimasero in silenzio, osservati unicamente dallo sguardo vigile di Malìa. Grympur, dopo qualche istante, le si avvicinò ed alzò il suo muso verso il volto di lei. Non era alto come un cavallo, anzi, forse era più simile ad un pony, ma con un’eleganza che non aveva rivali.
Alys scrutò in quegli occhi blu e rimase fortemente attratta dal sacro animale. La tentazione di sfiorarlo era così tanta, che infine avvicinò la mano al suo muso, con la speranza di poterlo accarezzare per capire anche se fosse solo una visione.
Grympur osservò il suo gesto e poi, colpendo piacevolmente la ragazza, si lasciò sfiorare, strofinando lui stesso il muso su quella rosea mano umana.
«La leggenda narra che solo una vergine fanciulla può avvicinare tranquillamente un sacro unicorno. A lei sola si presenterà, a lei sola si farà accarezzare. Solo sul suo ventre poserà il suo capo.» La voce di Malìa s’insinuò in quel contatto. Alys ascoltò le sue parole, ma guardò ancora con intensità l’unicorno.
Come per saggiare la veridicità delle parole della Figlia della Notte, Alys si sedé a terra, sul morbido prato, e Grympur la scrutò attentamente, ma bastò solo qualche istante per far avverare le parole, posò infatti il suo capo sul grembo di lei, e lei sorrise, iniziando ad accarezzarlo e sentendosi davvero onorata e fortunata di poter compiere un atto simile.
Malìa li lasciò soli a condividere quel momento. Alys non aveva paura della notte ora né della foresta. Non le importava dei briganti che potessero arrivare né di altri pericoli. Si sentiva al sicuro con Grympur posato sul suo grembo, e desiderava unicamente che la notte durasse il più a lungo possibile per non staccarsi da lui. Si sentiva pervadere da uno strano sentimento mai provato prima, e ciò la faceva stare davvero bene.
Ma, come per ogni momento migliore, il tempo sembra farsi beffe e trascorrere più velocemente. Il cielo iniziò a schiarirsi un minimo, il nero sfumò pian piano nel grigio, mentre la luna sembrava scendere all’orizzonte. La magia sembrò svanire come la notte.
«È il momento di tornare nel nostro mondo. Il giorno sta occupando il posto della mia amata Madre, e noi creature della notte non possiamo restare qui, così come Grympur.» Le parole di Malìa gettarono Alys in un tale sconforto da farla piangere. Guardò l’unicorno con il quale aveva trascorso piacevoli ore, ed incontrò il suo sguardo.
«Potrò vederti ancora?» domandò, ma non fu lui a rispondere.
«Potrai farlo ogni notte che vorrai, purché tu mantenga il giuramento di rimanere vergine. Se un giorno dovresti innamorarti di un mortale ed avere dei rapporti più profondi con lui, svanirà il tuo legame con Grympur e, con esso, la possibilità di rivederlo.»
Alys restò turbata e senza parole. Doveva decidere se rinunciare alla normale vita umana e andare così contro il volere dei suoi amati genitori, o rinunciare a quella magica creatura che tanta gioia le aveva donato in quella notte e che in passato aveva salvato la sua vita.
«Sei pronta a giurare?» riprese Malìa, fissandola con i suoi folgoranti occhi azzurri, ai quali si unirono quelli più scuri dell’unicorno.
«Mi vuoi ancora dolce Alys?» La sua dolce voce fu come una carezza sul suo viso ed un bacio sul suo cuore.
«Non posso ancora giurarvi nulla, se non che per il momento resterò vergine, come da voi richiesto. Ma non posso andare contro il volere dei miei genitori, né causare loro ulteriore dispiacere…»
Grympur scosse la folta criniera, forse dispiaciuto. «Prenditi il tempo per decidere, fanciulla. Quando ti sentirai pronta, potrai aspirare anche ad accedere al nostro mondo. So che non è facile, ma dovrai fare una rinuncia molto importante nella tua vita. O il tuo mondo o il nostro, non ci sono alternative.»
Alys cercò di obiettare, ma dalla sua bocca non uscirono dei suoni articolati e con senso. Si limitò ad annuire col capo. Non sarebbe stato facile per lei rinunciare a uno dei due mondi.
«A presto, dunque.» Sia Malìa sia Grympur furono avvolti da due luci differenti. Una moltitudine di colori si riflesse nella luce dello spirito, una candida e calda avvolse l’unicorno che non smise di guardare la fanciulla, fino a che non lo vide più.
«Segui le lucciole. Loro t’indicheranno la via.» La voce soffusa e lontana di Malìa si destò ancora nell’aria, seppure lei fosse del tutto scomparsa.
Alys si ritrovò dunque sola ed un connubio di emozioni contrastanti le avvolse il cuore. Meraviglia, Amore, Dolore, Incertezza.
Dopo qualche istante di dubbio, riprese la lanterna e, seguendo le lucciole che erano apparse proprio dinanzi a lei, ritrovò la via di casa. Ogni notte faceva ritorno alla radura; ogni notte Grympur le veniva incontro e adagiava il suo capo sul suo ventre, lasciandosi accarezzare con dolcezza. Malìa spesso li lasciava soli, liberi di parlare o di rimanere in silenzio a godersi quelle poche ore che li separavano dal sorgere di un nuovo giorno.
Dopo quella prima notte, non la tormentarono più con la domanda, ma Alys notava negli occhi del suo amico un filo di tristezza e speranza nel poter forse vivere un giorno per sempre insieme. Tuttavia era dura decidere, non aveva mai raccontato ai suoi genitori ciò che le era accaduto, poiché temeva di sentirsi additare di nuovo come una pazza in preda ai deliri. Era sicura dell’amore che provavano per lei, ma sapeva anche che certe cose erano solo frutto di fantasie per chi non avesse visto tutto con i propri occhi.
Sua madre, però, notò ben presto in lei un cambiamento. Notò la stanchezza che la coglieva il giorno, come se non avesse dormito bene. Notò l’incertezza nei suoi occhi, il desiderio che la notte giungesse presto e cercò di farle domande. In un primo tempo Alys tentò di non rispondere in maniera chiara, ma ben presto comprese che così facendo alimentava unicamente i dubbi e le preoccupazioni di sua madre.
Una mattina, quindi, dopo l’ennesima domanda, iniziò il racconto, consapevole che rischiava molto e, infatti, sul viso della madre sorse ben presto un’aria incredula e sconcertata.
«Avevi già raccontato di un simile incontro da bambina, ma pensavo che la fantasia giungesse al termine una volta adulta. Cosa ti succede, figlia mia? Sei stata di nuovo al bosco senza il nostro permesso e hai preso strane erbe?»
«No, madre, non sto inventando nulla. Non è frutto della mia fantasia, non lo è mai stato. Ciò che ti sto raccontando è tutto vero.»
«Dovrò raccontarlo a tuo padre, ma se continuerai con queste fantasie, rischierai molto…»
Il tono usato da sua madre era visibilmente addolorato. Non voleva che a sua figlia succedesse nulla di male, ma non poteva credere veramente alle sue parole.
Alys si sentiva triste. Sua madre, la sua unica vera confidente, non le credeva. Suo padre l’aveva quasi aggredita, invitandola a pensare seriamente ad un matrimonio anziché a simili sogni, ma non poteva sapere che ben presto avrebbe dovuto prendere una decisione che poteva comportare anche il doverli lasciare per sempre. Li amava profondamente, ma si sentiva anche delusa dai loro atteggiamenti, anche se in parte poteva comprenderli. Avrebbe voluto davvero riuscire a convincerli, ma non poteva continuare a parlarne. Presto o tardi l’avrebbero davvero vista come una folle, e magari spedita in chissà quale posto dove trattavano di questi casi.
Trascorsero i giorni ma Alys non riusciva a prendere una decisione. Per Malìa non sembrava essere un problema. In uno dei loro ultimi incontri, le aveva spiegato che a Nocturnia, il mondo fatato in cui viveva, il tempo passava molto più lentamente che nel mondo reale, e lì erano tutti immortali. Potevano quindi attendere ancora, finché lei avrebbe rispettato quell’unica regola.
Grympur, dopo un primo momento di tristezza, aveva lasciato il posto unicamente alla speranza ed ogni notte tentava di raccontarle maggiormente del suo mondo e di scaldarle il cuore con parole di apprezzamento. Tra di loro stava nascendo un legame forte e indistruttibile, se non da lei stessa. Non sapeva se poteva definirlo amore, forse era un sentimento che andava oltre. Spirituale sicuramente, e non materiale o corporeo come poteva essere quello tra due esseri mortali. Era qualcosa di magico che non riusciva a spiegare con semplici parole umane. Poteva solo provarlo. Sentiva il suo cuore essere avvolto da una patina sottile e calda.
Qualcuno aveva mai raggiunto la felicità? Lei, con Grympur, l’aveva ottenuta. Bastava fare ancora solo un grande passo per averla in modo completo. Doveva scegliere.
Una notte si avventurò di nuovo lungo il percorso che conduceva alla ormai amata radura, e lì ad attenderla c’era Grympur. Lo osservò da lontano, chinare il capo verso il ruscello per bere un poco di quell’acqua pura. Poi avanzò fino a raggiungerlo, e sprofondò una mano sulla criniera d’avorio, con dolcezza, mentre un sorriso sorgeva spontaneo sulle sue labbra.
«Alys.»
Adorava sentire il suo nome mormorato da lui. Sembrava così bello, così dolce. Adorava la sua voce come nessun’altra al mondo.
«Sono qui, come ogni notte, mio caro amico» rispose, sfiorando il muso del sacro animale con le sue labbra, in una sorta di casto bacio.
«Sono felice di vederti, come sempre.»
«Il piacere è anche mio, ovviamente.» Andò a sedersi su un lato del prato, lasciando che l’animale si adagiasse a terra, posando il capo, come sempre, sul suo grembo.
«Mia dolce Alys, hai deciso cosa fare? Non è mio desiderio imporre nulla, né metterti fretta, ma la curiosità logora anche un essere come me.» Era la prima volta che glielo domandava, dopo il loro secondo vero incontro, e lei si sentì di nuovo combattuta.
«Non sai quanto mi piacerebbe poter condividere ogni momento con te e vivere nel vostro mondo che, dai vostri racconti, sembra essere veramente magico, ancor meglio di tutte le mie fantasie di bambina.» Si fermò un attimo, estasiata al ricordo delle immagini create dalle parole, dalle storie narrate da Grympur e Malìa, poi sospirò tristemente e riprese: «Ma è difficile per me abbandonare quella che è la mia vita, e i miei genitori che hanno fatto tanto per me…»
«Ma loro non vogliono credere alle tue parole. Ti reputano pazza, e ben presto potrebbero costringerti a non venire più qui. Scopriranno le tue avventure notturne e per noi sarà la fine.»
«Lo so…» Non riuscì a dire altro. Le parole dell’amico erano veritiere, ma una forte incertezza la turbava.
Rimasero in silenzio, lasciando che solo i suoni della natura emergessero. Ma Alys non poteva sapere che quella notte non era giunta da sola.
Un gruppo di cinque briganti l’aveva seguita, incuriositi da una donna che osava aggirarsi da sola in quel luogo, con quell’oscurità. Inizialmente forse pensavano di poterla aggredire, ma quando videro l’unicorno, restarono senza fiato. Rimasero quieti dietro a dei cespugli, cercando di organizzarsi. Tutti avevano dei coltelli ma due di loro erano degli esperti con l’arco. Bisbigli furono trasportati dal vento e fecero raddrizzare le orecchie a Grympur che si guardò attorno allarmato. Tuttavia, fu troppo tardi.
Nel momento esatto in cui si stava alzando, una freccia sibilò nell’aria e rapida e letale si conficcò proprio al petto dell’animale che nitrì dal dolore. Alys urlò spaventata e, quando si accorse dell’arma, il grido divenne pura disperazione. Cercò di alzarsi ed aiutare l’amico, ma lui iniziò a muoversi e rizzare le zampe anteriori in alto, come nel vano tentativo di scrollarsi di dosso la freccia.
«Grympur, scappa, vai via!» gridò disperata Alys, cercando intorno a sé qualsiasi cosa potesse esserle utile per difendersi. Ma non trovò nulla.
L’unicorno non ascoltò la sua voce, non aveva alcuna intenzione di lasciarla sola e priva d’aiuto. Posò di nuovo a terra le zampe, ponendosi proprio dinanzi a lei, e cercò con lo sguardo gli assalitori.
Una seconda freccia sibilò nell’aria ma questa volta centrò una zampa dell’animale che, già dolorante, ricadde a terra per un momento. A quel punto i briganti emersero dal loro nascondiglio e con un grido si avventarono sui due, inermi.
Alys avvertì la paura sconvolgerle le membra, un brivido freddo lungo la schiena che scorreva poi dritto verso il cuore. Grympur non si allontanò, cercò di alzarsi con molta fatica, e di tenersi pronto a scontrarsi con quei mortali privi di scrupoli. Iniziò a muovere il muso cercando di far loro del male anche con il lungo corno appuntito, o di alzare le zampe nel tentativo di spingerli indietro.
Un primo brigante cadde ferito sotto il peso dei suoi zoccoli, ma gli altri due si avventarono su di lui, con lame affilate e il desiderio di facili guadagni negli occhi. Erano spinti anche dalla fame e dalla sete di sangue.
Grympur tentò di assalirli di nuovo, mosse il capo con furia e anche le zampe, ma pian piano avvertiva la debolezza scaturita anche dalle frecce ancora conficcate nel suo corpo. Alys non riusciva a muoversi, come impietrita. Solo quando una terza freccia, proveniente dagli ultimi due briganti rimasti ancora lontani, colpì ancora una volta la magica creatura, sentì come la forza della disperazione spingerla a reagire.
«NO! Lasciatelo, lasciatelo stare!» gridò con tutta se stessa, mentre tentava di avanzare verso i briganti. Grympur, però, glielo impedì. Le lanciò un rapido sguardo nel quale poteva leggere tutto. No, lui non poteva morire per lei, per proteggerla. Già una volta l’aveva salvata, ora stava a lei far qualcosa. Non avendo armi, tentò di usare l’unica carta possibile.
«Malìa, aiutaci, Figlia della Notte vieni in soccorso del più sacro dei vostri animali. Ti prego…» Lacrime affiorarono ai suoi occhi, mentre invocava a pieni polmoni l’aiuto dello spirito, che però sembrò non ascoltare subito il suo richiamo.
Intanto i briganti sembrarono avere la meglio. I due con archi e frecce ne scagliarono altre, alcune finirono sul prato, altre colpirono ancora una volta l’unicorno. La sua forza era riconosciuta come la sua purezza ma, nonostante ciò, iniziava ormai ad essere visibilmente ferito e stanco, tanto da accasciarsi a terra. Riuscì solo a nitrire ancora verso quei mortali, come nel tentativo di fare loro paura.
Alys continuò ad invocare Malìa e proprio non riusciva a comprendere perché tardasse; rinunciò e si accasciò sopra al povero amico ormai gravemente ferito. «No. No. No!» Cercò con tutte le forze di non staccarsi dal corpo dell’animale, di non permettere che quegli uomini lo finissero. Sperava in cuor suo di poterlo ancora salvare e non ascoltò neanche le parole di lui, che tentava di allontanarla, di volerla ancora proteggere nonostante tutto. «Non me ne vado. Non ti lascio qui. Se tu muori, io non posso continuare a vivere, lo capisci?»
«Alys, va’ via, ti prego. Non posso sopportare che ti facciano del male. Sono stato bene con te, ma ora devi scappare. Fallo.»
«No. Non me ne vado senza di te, perché solo ora ho capito che voglio vivere con te. Non posso rinunciare a te.»
I briganti sembrarono fermarsi, come non comprendendo il discorso. Riuscivano ad udire, infatti, solo le parole di Alys.
Grympur sembrò non parlare più, ma ansimava per il forte dolore, tuttavia anche quello, di fronte alle sue parole, sembrò cessare per un istante. Le rivolse un sorriso, o qualcosa che aveva la parvenza di un sorriso, e lei ricambiò tra le lacrime. «Sapevo che questa sarebbe stata la tua scelta.»
Quella scelta sembrò dargli un maggior vigore, tanto che, spingendola di lato, tentò di nuovo di alzarsi. Solo allora i briganti si mossero di nuovo, sconcertati. Uno dei briganti bloccò Alys, mentre gli altri si avventarono sull’unicorno. Tra urla, lacrime, nitriti e suon di zoccoli, scintillìo di lame e sibilo di frecce, alla fine i briganti ebbero la meglio, riscontrando tuttavia ferite, anche profonde. Il loro avversario aveva dimostrato davvero valore, ma era caduto.
Alys guardò tra le lacrime Grympur a terra che non riusciva più a reagire. Il rantolo del suo respiro indicava che ancora non era morto, ma presto la fine sarebbe stata vicina se non fosse successo qualcosa.
«Su, bellezza, è solo un animale che può portarci tanti soldi. Guarda ora che gli facciamo e poi potremmo divertirci insieme» disse lascivamente il brigante al suo orecchio, osando sfiorarla sul viso, grezzamente.
Alys cercò di divincolarsi. Non le importava di lei. Senza Grympur sarebbe stata disposta a morire, ma non voleva perderlo. Non voleva credere che sarebbe finita così.
Tre dei briganti tenevano fermo l’unicorno, come se temessero che ritrovasse ancora un briciolo di forza, mentre un quarto sollevò un coltello affilato, per poi puntarlo verso il corno.
«Questo ci frutterà davvero molto» ghignò, mentre i suoi occhi si accesero di una luce malvagia. Alys non poteva sopportarlo.
Malìa…
Il suo grido finalmente sembrò sortire l’effetto sperato. Dalle acque si levò un lamento, e poi una luce dai colori più svariati fluttuò nell’aria. Nel cuore di Alys si accese una speranza. Forse si poteva fare ancora qualcosa, forse Malìa avrebbe potuto curarlo portandolo nel loro mondo e, questa volta, sarebbe andata per sempre con loro, lontana da quei mortali crudeli, capaci solo di provocare un intenso dolore per motivi futili o meno.
Gli uomini rimasero sconcertati dall’arrivo di quella strana luce. Chiusero gli occhi per qualche istante, ma non smisero di tenere strette le loro “prede”.
Malìa comparve nell’aspetto di una creatura splendida, come l’aveva vista la prima volta che era mutata dinanzi ai suoi occhi. Non c’era traccia della creatura minuta. Sembrava una perla del mare, una sirena, una donna simile a una dea.
La Figlia della Notte iniziò ad intonare un canto, al cui richiamo presto risposero altre figlie. Dalle acque emersero altre creature, simili a fanciulle umane di una bellezza sconvolgente; il vento sferzò forte trasportando eteree figure femminili, che danzavano nell’aria. I fiori sembrarono sbocciare, anche con l’oscurità, e da essi emersero figure più minute, ma ugualmente deliziose, aventi i colori della terra e della natura. Fuochi fatui azzurrognoli comparvero dal nulla, e dalle loro lingue, sbucarono altri spiriti femminili i cui arti erano simili a fiammelle.
Alys rimase sorpresa, ma non quanto i briganti che guardarono quelle strane creature, allibiti. Tutte le figlie della notte e degli elementi iniziarono ad intonare un canto seducente e ammaliante, mentre si avvicinavano ai cinque mortali, avvolgendoli all’interno di un cerchio come nel tentativo di non farli scappare.
Quello che teneva Alys, la lasciò andare, estasiato da cotanta meraviglia. Si avvicinò a Malìa, sistemandosi meglio, come a volerla colpire con un fascino che non gli apparteneva minimamente. Gli altri sembrarono avvicinarsi alle altre fanciulle, soggiogati da quella magia alla quale non riuscivano a sottrarsi.
Alys sorrise tra le lacrime. Gli spiriti stavano riuscendo ad allontanare quegli uomini, e presto Grympur sarebbe stato portato via, al sicuro. Ma… una voce maschile, graffiante, spezzò anche quella speranza.
«Faccio un lavoretto e sono vostro.» Sembrò resistere a quella magia, e con un gesto deciso scagliò la lama del coltello sul corno dell’animale, staccandolo di netto.
Per Alys il mondo era finito. Il suo grido di disperazione si unì a quello di estremo dolore di Grympur.
Dal punto esatto in cui il corno era stato tagliato, fuoriuscì una luce intensa e bruciante, che ustionò la mano del brigante, che aggiunse il suo grido. Poi una semplice parola risuonò nell’aria, come un’eco che non aveva mai fine. Uccidere. Uccidere. Uccidere. Il grido di battaglia delle figlie della notte: uccidere.
La foresta fu invasa da una serie di urla stridenti, provenienti da ognuna delle “fanciulle” che in un attimo rivelarono ben presto la loro vera natura. Ogni spiritello assunse i colori dei vari elementi di cui erano figli. Gli spiriti dell’acqua attinsero le tonalità del verde e dell’azzurro, lunghi capelli bianchi simile a spuma avvolgevano i loro corpi liquidi, e gli occhi erano completamente candidi come neve. Gli spiriti del fuoco attinsero le tonalità del rosso e dell’arancio, i capelli erano fiamma viva, così come il corpo non aveva più sembianze umane ma era avvolto da una sorta di fuoco fatuo dal quale erano emersi. Gli spiriti dell’aria divennero di un blu molto scuro; i capelli sferzavano l’aria, simili a fruste color dorato, e volteggiavano trasportate dal vento. Gli spiriti della terra assunsero le tonalità del verde scuro, i capelli simili a radici marroni, le gambe simili a tronchi d’albero.
Infine, Malìa riacquistò il suo vero aspetto, e lesta si scagliò contro il brigante che le aveva fatto delle avance. Gli prese il collo tra le mani scure e i suoi occhi lo guardarono con un’ira divorante. Spalancò le labbra in maniera inverosimile, e da esse uscì un flusso scuro che avvolse completamente l’uomo, facendolo urlare dal dolore e dal puro terrore. Spine acuminate, simili a quelle delle rose, forarono il corpo dell’uomo, da cui occhi iniziarono a sgorgare lacrime nere.
Le sue sorelle, tuttavia, non furono meno spietate. La radura, dapprima silenziosa e quieta, divenne un vero e proprio campo di battaglia. Sferzate di vento gelido si scagliarono contro uno dei briganti, simili a colpi di frusta che non si arrestarono fino alla sua morte; spire di fuoco avvolsero il terzo brigante, facendolo ardere come una torcia umana; mentre il quarto si ritrovò avvolto dalle sorelle d’acqua, le cui voci risuonarono simili a risate crudeli, quando da ogni parte del suo corpo iniziò sgorgare il loro elemento, prosciugandolo del tutto.
Alys non osservò nulla. Non si curò minimamente delle urla disumane che spinsero l’intera foresta a destarsi prima dell’alba. Il suo sguardo, ormai vacuo, era totalmente rivolto al corpo ormai privo di vita del suo amato Grympur. Avrebbe voluto credere che fosse solo un terribile incubo dal quale destarsi e ritrovarsi di nuovo con lui, magari proprio in quel mondo magico nel quale poteva avere libero accesso, se solo lo avesse deciso prima…
Si sentì terribilmente in colpa. Forse se avesse effettuato presto la sua scelta, non sarebbe successo nulla del genere. Ma ormai non poteva fare nulla. Anzi, nel momento esatto in cui vide un ultimo essere umano ancora vivo, seppur completamente terrorizzato, comprese che c’era ancora qualcosa da fare prima di lasciarsi andare alle tenebre. Colse lo scintillio di una lama a poca distanza da sé, e raccolse subito il coltello, avvicinandosi all’uomo.
«Ora la pagherai cara» sibilò, e dentro lei si accese la stessa furia omicida che sembrava caratterizzare il luogo e anche lei rispose al grido di battaglia. Uccidere, lei doveva farlo.
L’uomo, colto alla sprovvista, non riuscì a scappare o difendersi. Alys si scagliò contro di lui, affondando la lama del coltello con tutta la sua forza, dritta al petto. Era la prima volta che uccideva e mai avrebbe pensato di farcela realmente, ma la disperazione donava forza, e con essa si poteva attuare la giusta vendetta per un torto subito.
L’uomo stramazzò a terra ed Alys lo fissò, come volendo notare tutto il suo dolore ed ogni singolo ultimo istante della sua vita. Quando finalmente esalò il respiro finale, Alys ricadde a terra, avendo perso anche l’ultima forza residua. Si sentiva debole e incredibilmente triste. Senza Grympur la sua vita ormai non aveva più senso. Posò il capo sul suo corpo, così come tante volte aveva fatto lui, e si lasciò andare ad un pianto disperato, che non poteva però trovare consolazione alcuna.
Quando ormai non c’era più nessuno da uccidere, Malìa le si avvicinò, rimanendo per qualche istante in silenzio, consapevole del suo dolore. Gli altri spiriti rimasero intorno, in un muto cerchio, in attesa di vedere l’evolversi degli eventi. Sui volti particolari e grotteschi di ognuno di essi si leggeva una profonda tristezza ed anche un senso di smarrimento.
«Alys, mi dispiace non essere giunte prima, ma il nostro mondo ha delle regole come il vostro. Non possiamo impedire agli uomini di compiere le loro scelte, giuste o sbagliate che siano; ma se vanno contro le nostre regole, se uccidono i nostri animali sacri, allora possiamo intervenire. Ti sembrerà sciocco, ma quante cose del vostro mondo sono folli ai nostri occhi. Si fermò, e il silenzio fu scosso solo dai singhiozzi senza tregua di Alys, ancora accoccolata sul corpo del suo unicorno.
«Il mio cuore è straziato da una visione simile, come quello delle mie sorelle e della nostra Madre Notte. Grympur era l’ultimo della sua specie e per noi è una perdita che si può paragonare a quella che ora stai provando.»
«Malìa, non ti accuso di nulla. Non posso criticare il vostro mondo, quando nel mio esistono persone così crudeli e senza cuore. Ho sbagliato a non scegliere prima ed ora Grympur è…» Un singhiozzo la scosse di nuovo, non riuscendo a dire quella maledetta parola, come non volendolo accettare. «Ma ora la mia scelta l’ho fatta. Rinuncio alla mia vita mortale per seguirlo. Io seguo te, mio amato Grympur.»
Prima che potessero fare qualcosa, Alys prese lo stesso coltello con cui il brigante aveva tagliato il corno, e lo portò proprio al suo cuore. Nel momento prima di affondare la lama, sorrise per l’ultima volta. Alcune figlie della notte posarono con gentilezza il corpo privo di vita di Alys a terra, proprio al centro della radura. Altre, con a capo Malìa, vi trasportarono accanto ciò che restava di Grympur, adagiando il suo capo sul ventre di lei, compreso il suo corno.
Gocce scarlatte di sangue macchiavano il bianco puro dell’abito di Alys e del manto di Grympur. Quelle creature erano l’immagine della forza e della purezza. Quelle creature avrebbero continuato a vivere insieme per sempre.
I corpi degli assassini furono gettati fuori dalla foresta, mentre una protezione fu creata tutt’intorno alla radura, così che nessuno da quel momento in poi avrebbe più potuto metterci piede. Malìa fece disporre le sorelle in un cerchio attorno ai due corpi. Tutte iniziarono a sollevare le loro braccia verso il cielo, richiamando la loro madre affinché l’incanto potesse avere l’effetto desiderato.
La Notte rispose alla loro invocazione. Dalle stelle scivolò della polvere dorata, mentre la luna nascondeva il suo volto. Quella polvere scese verso terra, avvolgendo completamente i corpi di Alys e Grympur. Ben presto iniziò ad essere modellata dalle abilità magiche delle figlie della notte, fino a che sorridenti, seppur nel dolore, osservarono il lavoro concluso.
Intorno ai loro corpi fu eretta una sorta di statua di marmo bianco, raffigurante Alys seduta a terra, come sovente faceva, e Grympur ancora intatto che posava il suo capo sul ventre di lei.
Quello era l’ultimo regalo della Notte e delle sue figlie all’ultimo magico unicorno, e al suo dolce amore…

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Miti e racconti sull’Astro d’Argento

 


Nel corso dei secoli e fin dai primordi della civiltà, la Luna è stata il corpo celeste più studiato dagli astronomi, ma più per motivi di utilità pratica che per obiettivi scientifici: molti calendari infatti erano basati sul ciclo lunare, ed inoltre era di fondamentale importanza, per la navigazione, conoscere con grande precisione la posizione della Luna in cielo.
Il nostro satellite naturale dominava le antiche mitologie, impersonando, nella maggior parte dei casi, una divinità benigna. Essa rischiarava, durante il plenilunio, le tenebre notturne, ed inoltre permetteva di misurare con precisione lo scorrere del tempo.

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 Nella tradizione mitologica greco-romana la Luna, grazie alla mutevolezza del suo aspetto che la rende unica fra tutti gli astri, è stata associata non ad una sola, bensì a tre distinte divinità, legate ciascuna a tre sue diverse “manifestazioni”: la Luna Piena, la Luna Nuova e la Luna Crescente.
Metafora rispettivamente di vita, di morte e di rinascita, da tempo immemorabile queste tre figure lunari hanno rappresentato il ciclo della vita: è in tal modo che il simbolismo lunare ha potuto coinvolgere fenomeni apparentemente così eterogenei come la nascita, la morte, la fecondità, la femminilità, il divenire, l’immortalità. Il primo volto, la Luna nella sua scintillante pienezza, è simbolo di vita, e per la mitologia greco-ellenistica esso assume il nome di Selene.
Il secondo aspetto, quello della Luna Nuova, della Luna in congiunzione con il Sole, è incarnato da Ecate, l’unica divinità a condividere con Zeus, Re degli Dèi, il privilegio di poter estendere il proprio potere sia sul cielo, sia sulla terra, sia sul mare. Ecate era considerata la Luna Nera, simbolo di morte, ma anche di punto in cui tutto rifluisce per poter prepararsi a rinascere. Essa era inoltre una divinità legata anche al mondo del soprannaturale, degli Spiriti e degli incantesimi: per questa ragione le erano sacri i crocevia, luoghi che la tradizione popolare considerava teatro di sortilegi per antonomasia, dove s’innalzavano statue con le sue sembianze e, poiché si riteneva che Ecate conoscesse il passato, il presente ed il futuro, era raffigurata con tre volti o talvolta con tre corpi.
È forse per questa sua connessione con il mondo della Magia che Ecate finì per essere associata al Mondo degli Inferi, assumendo i connotati negativi di divinità maligna che in origine non aveva.
La terza manifestazione, infine, la falce di Luna che riappare dopo il novilunio, è simbolo di rinascita, di resurrezione, ed assume il nome di Artemide, sorella di Apollo.

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❂ Coyote ed Aquila rubano il Sole ❂
(Mito degli Indiani Zuni)

 

Secondo questo mito degli Indiani Zuni, una volta il Sole e la Luna erano tenuti nascosti in una scatola dal popolo dei Kachinas, fino a quando Coyote ed Aquila non decisero di rubarli…
Tanto tempo fa, quando tutto era buio ed era anche sempre estate, Coyote ed Aquila andarono a caccia. Coyote era un cacciatore abbastanza modesto, a causa del buio.
Essi andarono dai Kachinas, un popolo molto potente. I Kachinas avevano il Sole e la Luna chiusi in una scatola. Quando tutti erano già andati a dormire, i due animali rubarono la scatola.
Dapprincipio era Aquila a portare la scatola, ma poi Coyote convinse l’amico di lasciarla portare a lui. Coyote, curioso, aprì la scatola ed il Sole e la Luna scapparono e si librarono veloci su nel cielo.
Questo diede luce alla Terra, ma allo stesso tempo portò una diminuzione del caldo, ed è per questo che noi adesso abbiamo anche l’inverno.

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✴ Il Ragno e il Sole ✴
(Mito degli Indiani Cherokee)

 

All’inizio dei tempi c’era solo oscurità, e le persone cozzavano le une con le altre. Volpe disse che la gente dall’altra parte del mondo era piena di luce, ma era troppo ingorda per dividerla con gli altri, quindi Opossum si recò lì per rubare un po’ di luce. E trovò il Sole appeso ad un albero che illuminava ogni cosa.
Prese un minuscolo pezzo di Sole e lo nascose sotto il pelo della sua coda. Il calore, però, gli bruciò tutto il pelo. Perciò l’opossum ha la coda pelata.
Fu poi la volta della Poiana di provare a rubare il Sole. Essa nascose un pezzo di Sole nelle penne della sua testa, ed è per questo che la poiana ha la testa calva.
Ci provò infine Ragno. Costruì una ciotola di argilla, poi tessé una ragnatela (la Via Lattea) per tutto il cielo, raggiungendo l’altra parte del mondo. Sottrasse tutto il Sole e lo portò nella nostra parte del mondo, tenendolo nella ciotola di argilla.
Ecco come il Sole ha iniziato ad illuminare la Terra, e perché si è formata la Via Lattea…

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❈ Greci e Romani ❈

 

Come abbiamo pocanzi detto, i Greci chiamarono le divinità lunari Selene, Dea dell’Amore, Artemide, Dea della Caccia e della Castità, ed Ecate Dea dell’Oltretomba. Questo aspetto in tre forme della Luna racchiudeva i tre momenti essenziali dell’esistenza: Nascita, Vita e Morte.
I Romani mutarono i nomi delle divinità lunari greche Selene in Diana, Artemide in Lucina (da cui poi deriverà Luna) e Trivia, e sostituirono agli antichi sacrifici umani, celebrati alla Dea della Notte, l’usanza di ululare lungamente nei trivi (dove s’incontrano tre strade). Alla Dea venivano però celebrati sacrifici di animali: addirittura cento buoi in occasioni solenni, da cui deriva la parola ecatombe, che significa appunto “cento buoi”.

 

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☀ I Maya ☀

 

La Luna e il Sole erano creature terrestri: una giovinetta ed un cacciatore fra cui nacque l’amore. Il nonno della ragazza, arrabbiato, la fece uccidere e dividere in pezzi. Le libellule ne raccolsero il corpo ed il sangue nascondendoli in tredici ceppi cavi. Dopo tredici giorni di ricerche, Sole, il giovane cacciatore trovò i ceppi.
Da dodici di essi nacquero insetti e serpenti, e dal tredicesimo uscì la giovinetta Luna resuscitata.

 

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❋ I Popoli Mediterranei ❋

 

Le popolazioni del Mediterraneo chiamavano la Luna in diversi modi. I Cartaginesi la chiamavano Tanit, e la rappresentavano con un’immagine femminile raffigurata tra gruppi di stelle.
Nell’antichissimo Egitto aveva un doppio nome, Hator-Tefnut: nel primo caso (Luna Piena) era una seducente fanciulla, nel secondo (Luna Nuova) un leone.
I Sumeri e i Fenici la chiamavano Ishatar, i siriani Ashtart e i nomadi Arabi, Sin, che la adoravano sul monte che da essa prende il nome, Sinai.
L’antica tradizione orale ebraica, invece, racconta di una donna amata da Adamo prima di Eva, il cui nome, Lilith, deriva sia da antiche divinità mesopotamiche che dalla radice del termine “notte”.
Gli Assiri la rappresentavano circondata da animali notturni e la chiamavano “Luna Nera”.

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❖ Gli Egizi ❖

 

Secondo la mitologia egiziana, la divinità celeste Nut sposò segretamente il dio della Terra, Geb, ma Ra, Dio del Sole, formulò un incantesimo per il quale Nut non poteva avere figli in nessuno dei dodici mesi dell’anno. Un’altra potente divinità, Thot, con una partita a dadi, vinse, e sottrasse al calendario cinque giorni, i quali non appartennero più a nessun mese.
L’incantesimo di Ra era dunque rotto e Nut generò cinque figli. Uno di questi, Osiride, divinità della Luna, sposò sua sorella Iside.
Seth uccise Osiride e ne smembrò il corpo in quattordici pezzi. Iside trovò tredici dei quattordici pezzi, affinché ridesse vita ad Osiride.

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★ Fiaba Cinese sulla Luna ★

Il Signore dell’Eternità donò il Sole al Giorno, affinché lo illuminasse con la sua luce, facesse maturare i frutti della terra e ricompensasse le fatiche degli uomini… La Notte si offese, lei non ricevé nulla, e rimase tristemente avvolta dall’oscurità.
Ma il gigante Ti-Nu volle consolarla, affondò le sue mani invulnerabili nel molle corpo del Sole, e ne staccò una porzione tondeggiante, che poi avvolse in una nuvola, per portarla alla Notte. Improvvisamente un cane rabbioso si avventò su di lui e, per difendersi, il gigante Ti-Nu fuggì con velocità. Ma la nuvola che avvolgeva la porzione di Sole da donare alla Notte era piena di fenditure e, nella fuga, il suo prezioso contenuto fuoriusciva.
Ti-Nu, ignaro, continuò a correre e non si accorse di spargere intorno a sé scintille luminose, di seminare fiorellini incandescenti. Corse così velocemente, che inciampò nel secchio dove era stato versato il latte argenteo di una capra sacra: quella piccola porzione di Sole che non si era dispersa nella fuga vi cadde dentro, e perse la sua luminosità.
Il gigante Ti-Nu si disperò. Il cane rabbioso continuò ad inseguirlo, Ti-Nu continuò a correre per fuggire e, tutt’oggi, ancora corre.
E non sa di aver creato il firmamento, con le stelle scintillanti e la pallida Luna, protettrice dei sogni

 

 

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Possa la strada venirti incontro,

possa il vento sospingerti dolcemente.

possa il mare lambire la tua terra

e

il cielo

coprirti di benedizioni.

Possa il sole

illuminare il tuo volto

e

la pioggia

scendere lieve

 

 sul tuo tempo.

Possa Iddio

tenerti

sul palmo

della Sua mano

fino

al nostro prossimo

incontro.

(Benedizione Celtica)