Il Canto del Cristallo

C’erano una volta due sorelline che vivevano in una valle incantata. La valle era protetta da altissime montagne che d’inverno si rivestivano di neve soffice e candida, e in primavera, al disgelo, cantava di freschi ruscelli che si rincorrevano limpidi e spumosi lungo i pendii.
Le due sorelline abitavano in una piccola baita nel bosco, ai piedi della montagna più alta, quella che, si diceva, aveva il Cuore di Cristallo, e trascorrevano la maggior parte del loro tempo in mezzo alla Natura, ascoltandone i suoni per i quali avevano una forte passione e cantando e danzando con essa.
Una delle due sorelle sembrava poter vedere quello che agli occhi umani non era concesso, cioè quelle creature che popolano il bosco e i luoghi in cui la Natura è incontaminata, quegli esseri sottili ed impalpabili che la tradizione definisce “fate”, “gnomi”, “folletti”… il cosiddetto “Piccolo Popolo degli Spiriti della Natura”, e spesso danzava con loro. L’altra sembrava che avesse il dono di ascoltarne le voci, e con loro intrecciava canti, incantandoli con la sua stessa voce e con i suoni che scaturivano da tutto ciò che toccava.
Tutto sembrava sereno, nella valle, tutto sembrava scorrere in perfetta armonia, ma un giorno giunse loro notizia che strane cose stavano accadendo. Le montagne non sembravano più così accoglienti, la valle intristiva e con essa i suoi abitanti, la Terra sbottava di soprassalto più spesso di quanto facesse un tempo… forse la Natura manifestava i segni di quanto da tempo subiva dagli uomini… Sembrava che la Terra volesse dire qualcosa o, forse, chiedere.
Nei sogni delle due sorelline sempre più spesso la Montagna Alta, quella dal Cuore di Cristallo, compariva. Sembrava chiedere loro di mettersi in viaggio fino alle sue cime e da lì entrare nelle sue viscere, fino a raggiungere il centro del suo cuore cristallino. Fu così che un giorno le due sorelline si misero in viaggio, un po’ incerte perché non sapevano cosa fare, una volta arrivate là.
Sul cammino incontrarono uno strano individuo, un anziano dalla lunga barba bianca e dallo sguardo penetrante e azzurro come il cielo terso d’inverno.
«Dove state andando?»
«La valle sta soffrendo, e la Montagna Alta ci chiama fino al suo Cuore di Cristallo, ma neanche noi sappiamo perché, né cosa dovremo fare là, una volta raggiuntolo.»
«Benedette bambine!… Il Cuore della Montagna, un tempo puro e immacolato, ora è offuscato dal dolore che gli uomini, col loro agire incosciente, hanno inflitto alla Terra. La Terra soffre e la Montagna con essa…»
L’anziano, serio, proseguì: «Dovete sapere che il Cuore di Cristallo della Montagna raccoglieva e incanalava le energie purissime del Cielo, inviandole al centro della Terra e, viceversa, convogliava le forze della Terra verso il Cielo, creando un Ponte Sacro essenziale alla vita e all’equilibrio della valle e di tutto il pianeta. Chi ha creato questo mondo fa scendere le benedizioni dal Cielo sulla Terra attraverso ponti come questo, e se il Cristallo è offuscato il Ponte è interrotto… Per ridare gioia alla valle e ai suoi abitanti bisogna ripristinare il ponte, bisogna far tornare puro e immacolato il Cuore della Montagna, e per far questo bisogna farla cantare. Il canto del Cristallo scioglierà tutto il dolore e il cuore della montagna tornerà a risplendere puro, riportando luce nel cuore della Terra e pace agli abitanti della valle.»
«Ma come potremo far cantare la Montagna?» chiesero allora le bambine.
«Dovete fare in modo che il suo Cuore di Cristallo canti con voi.»
«Ma cosa dovremo cantare, per far sì che la montagna canti con noi?»
«Dovrete cantare il Nome segreto di Chi ha creato ogni cosa e che risuona incessantemente, da sempre, nel cuore di ogni uomo.»
Le due sorelle si guardarono, ciascuna sperando che l’altra avesse capito, e quando volsero lo sguardo sul saggio per farsi meglio spiegare, egli era già sparito.
Si rimisero in cammino ancor più confuse, incuranti del freddo e pensose. Erano presso la cima quando si accorsero di non esser sole, bensì circondate da creature vitree, sottili, che si confondevano con le nevi e coi ghiacci. Erano gli Spiriti a guardia della Montagna, pronti a mostrare loro il passaggio, altrimenti inaccessibile, per giungere al Cuore di Cristallo della Montagna stessa.
Le due sorelle si inoltrarono nel tunnel buio, scorgendo appena il percorso che veniva loro illuminato dal pulsare di quello che pareva il cuore di questi esseri non certo umani, un cuore silenzioso come loro e come la Montagna.
Finalmente giunsero al centro del Cuore della Montagna, e uno spettacolo meraviglioso apparve ai loro occhi.
 Una fenditura dall’alto lasciava passare un raggio di luce che si rifrangeva e moltiplicava se stesso sulle infinite sfaccettature di innumerevoli concrezioni cristalline…il Cuore della Montagna era veramente di Cristallo, di tanti cristalli stupendi che ne rivestivano le cavità silenziose, pulsanti di luce ormai debole, offuscata, che lasciava immaginare quel che l’uomo aveva inflitto alla Terra.
Gli Spiriti della Montagna si erano radunati silenziosi attorno alle due sorelle, in attesa. Il loro cuore luminoso pulsava col debole cuore della Montagna, che sembrava potersi spegnere da un momento all’altro, per sempre.
Le due sorelle si guardarono, anche loro in silenzio. In loro echeggiavano le parole dell’uomo incontrato sulla strada: «…per far cantare la Montagna, bisogna cantare il Nome segreto di Chi ha creato ogni cosa, un Nome che risuona incessantemente nel cuore dell’uomo… di ogni uomo… senza distinzione…» Il Nome segreto racchiuso nel cuore di ogni uomo… un suono!… qui tutto è silenzio… un suono che sia un canto… il suono del suo battito, il suono del battito del cuore dell’uomo farà cantare la montagna!
Le due sorelle si presero le mani e le appoggiarono sul loro cuore, e cercarono di dargli voce, per far sì che tramite la loro voce arrivasse al cristallo per farlo vibrare… e il cristallo cantò, e cantò, e cantò di un canto sublime, e il dolore si sciolse e con esso l’oscurità. Man mano che si levava il canto, dal Cuore di Cristallo della Montagna la luce sembrava inondare le viscere della Terra, e in men che non si dica tutta la valle risuonava di quel canto, che si propagava da montagna a montagna.
Agli occhi e alle orecchie delle due sorelline sembrava un miracolo, e danzarono di gioia, mentre continuavano a cantare quel suono che ciascuno, ignaro, custodisce nel cuore e che faceva vibrare la montagna. Forse gli uomini avrebbero continuato a devastare la Terra, forse il Cuore della Montagna avrebbe sofferto ancora e ancora una volta si sarebbe offuscato, interrompendo quel flusso di luce che dal Cielo giunge alla Terra…
Loro avrebbero comunque cantato e fatto cantare la Montagna, ed avrebbero insegnato quel canto ad altri, per riportare la serenità e la purezza del cristallo in ogni cuore, sempre.

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Il Castello nel Lago

C’era una volta un nobile Cavaliere che viveva in un magnifico castello, in un regno prospero, fiorente e tanto vasto di cui nessuno conosceva i confini per quanto lontano ci si potesse spingere.
Il Cavaliere, da tutti molto amato e rispettato, aveva un’armatura, una meravigliosa e bellissima armatura fatta di un metallo straordinariamente resistente, che lo proteggeva da qualunque attacco nemico e lo riparava da qualsiasi pericolo potesse sopraggiungere. L’armatura era così bella, così magicamente sottile, liscia e lucida che lasciava trasparire le sembianze del bel Cavaliere, e intanto rifletteva con bagliori argentei e lunari ogni raggio di luce che incontrava la sua superficie. E, meraviglia delle meraviglie, era così leggera e flessibile l’armatura, quasi impalpabile, che al Cavaliere non sembrava nemmeno di averla indosso, tanto lo lasciava libero in ogni movimento desiderasse compiere.
Così il Cavaliere viveva, circondato dagli agi di una vita di corte allegra, prospera e serena, e non mancava certo di divertirsi e di fruire di ogni ricchezza e piacere che gli veniva concesso. Era così affascinante il Cavaliere nella sua splendida armatura, così ammirato e conteso sia dagli amici che lo cercavano per la piacevolezza della sua compagnia, sia dalle dame che, attratte dal mistero della sua impenetrabilità, gli offrivano le loro grazie senza indugi… eppure non era completamente felice. O meglio, in lui il senso di felicità, ogni volta che sembrava emergere, si trasformava invariabilmente in una sorta di strana e struggente malinconia che gli stringeva il cuore e gli appannava lo sguardo… si sentiva come se gli mancasse qualcosa.
Allora si guardava allo specchio, vedeva se stesso nella bella armatura e si accorgeva che, per quanto l’armatura fosse magicamente leggera e quasi trasparente… eh sì, quel “quasi” era di troppo… non gli permetteva di vedere, di sentire, di toccare completamente, come lui avrebbe voluto. Si rendeva conto, in quei momenti, che non si era mai visto in viso veramente. Nessuno lo aveva mai visto. L’armatura che lo proteggeva era come un velo resistente, sottile, ma pur sempre un velo che lo separava dal mondo. Per quanto sembrasse leggera, era fredda, l’armatura, e in quei momenti gli pesava sul cuore, e il Cavaliere avrebbe voluto togliersela di dosso almeno ogni tanto per sperimentare appieno il calore del sole, o di un tocco che riscaldasse e penetrasse la sua anima.
Sfortunatamente, l’armatura pareva bene assicurata intorno al corpo del Cavaliere da una serie di serrature, e il Cavaliere non ricordava dove fosse la chiave che le apriva… sempre che esistesse, quella chiave. Perché, in effetti, per quanto il Cavaliere si sforzasse di ricordare il momento in cui aveva indossato l’armatura, quel momento gli sfuggiva… proprio come se l’avesse avuta indosso da sempre. Andando indietro con la memoria, infatti, il Cavaliere si rendeva conto che in tutti i suoi ricordi l’armatura che portava era presente, come una seconda pelle. Sembrava quasi che l’armatura fosse nata e cresciuta con lui, confinandolo in una sorta di limbo, un riflesso ovattato della vita reale. La cosa che più lo inquietava era che nessuno potesse aiutarlo, perché per quanto chiedesse a destra e a manca, nessuno pareva saperne più di lui sull’argomento… anzi, pareva proprio che nessuno capisse a cosa lui si riferiva quando parlava della sua armatura… né tanto meno se ne trovava la chiave.
Da qualche tempo, inoltre, il Cavaliere si era reso conto che l’armatura non gli era poi così indispensabile. Di fatto abitava in un luogo pacifico, era circondato da persone serene, di conflitti o guerre neanche l’ombra, nemmeno ai confini del regno… e allora perché proteggersi tanto?
Finalmente il Cavaliere decise di consultare il Saggio che viveva nella torre più alta del castello, un Mago che pareva conoscere la risposta a tutte le domande. E quando il Mago lo accolse, il Cavaliere gli chiese se per caso conoscesse il segreto della sua armatura, che senso avesse e, soprattutto, cosa doveva fare per liberarsene.
Il Mago lo guardò a lungo con fare enigmatico, come soppesando ogni parola che gli passava per la mente, dicendo infine: «Figliolo, solo a te è dato conoscere il mistero della tua armatura, e io non posso far nulla se non dirti: trova la chiave che l’apre! Spingi te stesso oltre i confini di ciò che già conosci e abbi il coraggio di guardare al di là di ciò che già vedi. Come hai compreso, l’armatura racchiude un segreto, e nasconde e protegge una realtà più profonda e vera di quella che tu puoi immaginare. Nessuno può compiere il viaggio al posto tuo: tua è l’armatura, tuo è il cammino per svelarne il senso. Non posso dirti di più, se non: va’ e non tornare finché non avrai scoperto l’enigma arcano che si cela nella tua straordinaria armatura, perché solo allora troverai la felicità…»
Allora il Cavaliere decise di mettersi in viaggio, lasciandosi alle spalle corte, cortigiani e castello, agi e piaceri mondani, alla ricerca della chiave che avrebbe potuto liberarlo da quell’armatura, e di qualcosa che potesse renderlo veramente felice.
Vagando per monti e per valli il Cavaliere incontrò tante persone e tante creature ordinarie e straordinarie a cui chiedere indizi ed aiuti per trovare la chiave che cercava. Si spinse nei regni fatati, si inoltrò nelle viscere della terra, ebbe accesso a dimensioni insolite popolate da esseri a volte inquietanti, pieni di conoscenza. Poiché il Cavaliere aveva bei modi ed era sincero nella sua ricerca, chi lo incontrava gli dava ascolto e sembrava sinceramente desideroso di aiutarlo… ma, invariabilmente, nessuno poteva essergli d’aiuto. E in lui aumentava sempre più il senso di malinconia.
Ormai stanco e rassegnato, sempre più prigioniero dell’armatura che lo proteggeva da pericoli che si rivelavano sempre più inesistenti, il Cavaliere giunse sulle rive di un Lago, circondato da alte e innevate montagne che sembravano poste a guardia della sua vasta quiete. Calmo e limpido, il Lago riempiva l’anima di pace, una pace appagante che generava serenità e pienezza.
Un meraviglioso Castello sorgeva, isolato e solitario, tra le acque profonde e cristalline, al centro del Lago. Pareva fatto di pura luce cangiante, tanto spiccava nella distesa d’acqua. Il Cavaliere era molto stupito, poiché non v’erano strade, né ponti che sembrassero congiungere il Castello alla riva… e nemmeno vedeva imbarcazioni, o punti di attracco. Rimase lì, muto, a contemplare il bellissimo e straordinario Castello che svettava con le sue torri candide. Un’immagine che, non sapeva perché, lo commuoveva profondamente e lo faceva sentire ancora più malinconico di sempre.
Scese la notte, e il Cavaliere non sapeva distogliersi dalla vista del Castello nel Lago. Vi si sentiva irresistibilmente attratto e non aveva idea di come raggiungerlo…temeva che l’armatura, per quanto leggera, potesse trascinarlo a fondo condannandolo ad una morte gelida, oscura e inevitabile, e a quel pensiero rabbrividiva dal profondo, perché se c’era qualcosa di cui aveva sempre avuto paura, quella cosa era proprio l’acqua.
Finalmente si addormentò, lasciandosi trasportare dai suoi pensieri in un sonno profondo e rigenerante. E sognò, il Cavaliere. Sognò di svegliarsi improvvisamente al tocco di una mano delicata che gli sfiorava l’armatura sul viso. Era un tocco di cui poteva intuire ed immaginare il calore oltre la copertura che lo proteggeva e lo riparava… da cosa?… Si sentiva confuso mentre, levando lo sguardo, percepiva la presenza di una figura femminile, una bellissima dama china su di lui.
La dama non parlò se non con il suo sguardo intenso e con un gesto che invitava il Cavaliere verso il Castello… il Cavaliere, non vedendo imbarcazioni, fece appena in tempo a chiedersi come avesse potuto attraversare le acque del Lago… poi tutto si dissolse, e il Cavaliere si svegliò… davvero questa volta… forse.
Era l’alba, e il Cavaliere si chiedeva se avesse sognato o meno, o se stesse ancora sognando… Trascorse l’intera giornata contemplando il Castello nel Lago, rivedendo e immaginando ad occhi aperti la dama che aveva visto in sogno.
Sopraggiunse la notte, e il Cavaliere, incurante della fame e del freddo che cominciava a farsi sentire, finalmente si addormentò. Ancora una volta, gli parve di svegliarsi a quel tocco capace di destarlo, riemergendo dal limbo in cui si trovava tra veglia e sonno… e ancora una volta lei era là, bellissima e regale… e il Cavaliere divenne in un lampo consapevole di trovarsi di fronte non a una nobile dama, bensì alla Regina stessa del Castello sul Lago, che con un gesto invitante lo induceva a seguirla verso il Castello… come? Come avrebbero attraversato le acque che li separavano dal Castello, si chiese il Cavaliere. E come lui, semplice Cavaliere, poteva aspirare al cuore di una Regina? E a quelle mute domande, ancora una volta, tutto prese a dissolversi e il Cavaliere si ritrovò amaramente solo, a riflettere sull’accaduto mentre la sua armatura rifletteva l’immagine del Castello che si specchiava nel Lago…
Ancora una volta il sole sorgeva, e il Cavaliere lasciava trascorrere un’altra giornata contemplando il Castello nel Lago, mentre aspettava la notte… In quel momento, l’unica cosa che gli appariva chiara era che sarebbe potuto entrare nel Castello solo una volta libero dall’armatura, che lo isolava e gli attanagliava le carni. Mai aveva desiderato così tanto di esser libero da quell’armatura, compagna di vita cresciuta con lui. Quello e quello solo, era il suo desiderio, il desiderio d’esser libero da difese e protezioni che avevano fatto di lui un essere solo, separato, isolato dal mondo, quel mondo che gli si presentava per la prima volta attraverso la vista del Lago e del Castello, quel mondo del quale la Regina lo attirava ed invitava a sé… il Cavaliere voleva seguire la Regina nel Castello, quello era il prepotente desiderio che gli ardeva nel petto e che sembrava consumargli le pareti del cuore. Mai prima d’ora aveva provato nulla di tanto intenso, così intenso da rasentare il dolore. E l’armatura non poteva proteggerlo dal dolore di quella separazione. Né tanto meno dall’acqua che tanto temeva…
Ancora una volta giunse la notte ad accoglierlo, e il Cavaliere si lasciò scivolare in quello stato in cui la coscienza diradava i suoi appigli e si espandeva oltre i confini del giudizio… E finalmente la Regina lo risvegliò toccandolo, ancora una volta, ed ancora una volta con un cenno gli mostrò la distesa d’acqua, unica via verso il Castello, mentre l’altra sua mano si distendeva verso di lui. E questa volta il Cavaliere, senza farsi domande, la seguì, nonostante di fronte a lui non vi fosse altra strada visibile che l’acqua…
E si svegliò ancora una volta il Cavaliere, e questa volta era l’alba, e lui era lì, nell’acqua che lo avvolgeva penetrando e dissolvendo ogni difesa e protezione… e si sentiva sciogliere il cuore da quanto l’acqua era così dolcemente e piacevolmente accogliente, calda e rigenerante… si abbandonò il Cavaliere, e si svegliò ancora… dal sogno nel sogno… e risvegliandosi comprese in quell’istante presente che fino ad allora aveva sempre e solo dormito, e la sua vita non era stata nient’altro che un sogno… e quello che sembrava un sogno era la vita vera, reale, Reale, che attendeva da sempre il suo risveglio. E come svaniva l’aspetto oscuro e inquietante dell’acqua, lasciando spazio ad una Via chiara e diretta per il Castello e per il centro del suo cuore, così era svanita l’armatura che forse… forse non era mai esistita.
Ora il Cavaliere vedeva il suo volto vero, Reale, senza veli, felicemente riflesso nelle acque terse e limpide del Lago.

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Il Messaggio di una Fata

Un tempo lontano, gli uomini vivevano in completa armonia con la Natura, la amavano e la rispettavano in tutte le sue forme e ne conoscevano il linguaggio perché parlavano con essa un’antica lingua, quella dei cicli delle Stagioni, del Sole, della Luna, delle Stelle. Gli uomini consideravano se stessi e tutti gli esseri viventi sulla Terra come parte di un grande villaggio – la Terra, appunto – costituito da tante famiglie, tante quante erano le razze e le specie che riunivano e distinguevano le creature dei Regni Animale, Vegetale e perfino Minerale.
Allora, gli uomini sapevano che ogni famiglia dei Tre Regni aveva un Guardiano, una specie di custode che faceva da tramite tra le forze del Cielo e della Terra per proteggere la crescita armoniosa di quella famiglia in equilibrio con le altre famiglie di animali, vegetali o minerali, e con la grande famiglia degli uomini.
Prima di intraprendere qualunque cosa, l’uomo aveva la buona abitudine di interpellare i Guardiani dei Tre Regni per essere certo di contribuire al mantenimento dell’equilibrio naturale di cui sapeva e ricordava costantemente di essere parte.
Passarono i secoli e l’uomo, crescendo, dimenticò. Credé di essere l’unico al mondo, o almeno il migliore, solo perché aveva più bisogni da soddisfare, e questi bisogni lo rendevano creativo, tanto creativo da illudersi di essere il libero artefice di ogni cambiamento desiderato, a scapito della globalità e dell’equilibrio naturale.
E l’uomo ridusse tutto a un bel meccanismo. Gli serviva legna per costruire case, mobili, o fabbricare carta? Tagliava, o peggio, sradicava alberi senza alcun criterio, non pensando alle conseguenze che quell’azione poteva generare. Poco importava se le radici di quegli alberi, fino ad allora, avevano impedito al terreno di franare; poco importava se il fogliame di quegli stessi alberi costituiva parte di un prezioso depuratore dell’aria che egli stesso respirava… a lui serviva legna. Subito.
E i Guardiani che un tempo fungevano da tramite fra l’uomo e la Natura in tutti i suoi aspetti, ormai dimenticati si intristirono e si nascosero allo sguardo degli uomini nel Regno Invisibile, per proteggersi e continuare, non visti, a custodire e salvaguardare per quanto possibile la Natura ed ogni famiglia dei Tre Regni.
Sulla Terra, vicino al Mare, viveva una bambina. Era una bella bambina, paffuta e rosa, sempre considerata un po’ piccolina per la sua età. La bimba, dicevano, aveva una gran fantasia, poiché raccontava di vedere cose che nessuno aveva mai visto. Presto la bambina giunse alla conclusione che nessuno era capace di vedere ciò che vedeva lei, e così decise che era meglio non parlarne più per non essere derisa o fraintesa. Ma sentiva che le mancava qualcosa.
Spesso si trovava a guardare il Sole che tramontava dietro le montagne lontane, e sospirava di malinconia. “Chissà perché” si chiedeva. Finché un giorno, un bel giorno di primavera, mossa da qualcosa che non capiva, s’incamminò così, sola soletta, verso la montagna più alta, incurante di quello che avrebbe potuto trovare lungo la strada. Del resto, dicono, i bambini sono proprio degli incoscienti.
Cammina cammina, la stanchezza si faceva sentire, ma più la Montagna sembrava avvicinarsi più la bimba sentiva una gioia strana in fondo al cuore, quasi un solletico che la faceva ridere felice tanto da non sentire più d’essere stanca. Finché non arrivò alla Montagna.
Il Sole era caldo, così caldo che, man mano che saliva, la bambina doveva togliersi i vestiti. Arrivata finalmente in cima, si tolse anche le scarpe e le calze, poi si sedé sull’erba pensando qualcosa come “Beh, eccomi qui. E adesso?” e si mise a giocare da sola, come sempre.
Allora, improvvisamente, le parve di udire un gran brusio, come un chiacchiericcio ed uno scalpiccio lesto lesto, e in un baleno si trovò circondata da tanti esserini minuscoli, tanto che lei, sebbene fosse considerata piccolina, si sentiva quasi grande, anzi, un gigante in confronto a loro. Erano lì, lei li vedeva benissimo, eppure, ci avrebbe giurato, altri al suo posto avrebbero visto solo l’erba e qualche fiore.
Una tra queste creature si fece avanti arrampicandosi dapprima sul suo piede, poi lungo tutta la gamba finché la bimba non la accolse in mano accostandosela al viso per guardarla meglio. Era una “lei” o, almeno, sembrava; una creatura minuscola, graziosa e leggera, appena un po’ paffuta e rosa, quasi nuda, “Proprio come me” pensò la bambina. Anzi, quasi quasi un po’ le somigliava, soprattutto i capelli, anche se non sembrava di carne ed ossa, ma di qualcosa di molto più leggero ed impalpabile.
Mentre la bimba la osservava, la creatura cominciò a risplendere. La bimba allora la posò nell’erba soffice e la creatura sembrò emanare un forte alone di luce dorata, poi pian piano cominciò a despandersi e a crescere fino a diventare grande quanto la bambina stessa.
La creatura cominciò a parlare: «Bene arrivata, ti aspettavamo. Ci chiedevamo proprio quanto tempo ci avresti impiegato a udire il nostro richiamo. Sei nata sulla Terra, fra gli uomini, ma il tuo spirito appartiene al nostro regno, il Regno Invisibile. A volte succede che uno di noi si senta spinto a cercare un corpo umano che lo ospiti, un corpo in carne ed ossa per vivere sulla Terra, tra gli uomini. Non lo si fa per gioco o per curiosità, ma per assolvere ad un compito. Quando qualcuno di noi sente che è tempo di assolverlo, chiede un “passaggio” per la Terra. Allora scende dalla Montagna lasciandosi catturare da un grembo umano, proprio come hai fatto tu, per nascere e portare tra gli uomini il messaggio custodito dal nostro popolo, il Piccolo Popolo di quelli che un tempo erano i Guardiani della Terra. Il messaggio è il ricordo stesso dell’antica alleanza tra l’uomo e la Natura in tutte le sue forme. I rari uomini che ci vedono o intuiscono la nostra presenza ci chiamano Spiriti della Natura, Fate, Gnomi, Elfi e in molti altri modi, a seconda del Regno al quale apparteniamo e del quale siamo custodi, invisibili o quasi. Siamo fatti di materia sottile e possiamo cambiare forma, colori, dimensioni, ma non possiamo comunicare direttamente con gli uomini, come invece facevamo un tempo, perché gli uomini non ci cercano più. L’unico modo per comunicare davvero con loro è nascere fra loro.»
La creatura parlava e parlava, anche se pareva parlare senza parole, come se i suoi pensieri arrivassero direttamente al cuore della bimba. La bimba aveva tante domande da fare, ma prima ancora di poterle formulare sentiva arrivare la risposta.
«Quando qualcuno di noi nasce sulla Terra, prima o poi sente il richiamo della Montagna. È il richiamo della memoria. Sapevamo che saresti arrivata ed eravamo pronti ad accoglierti per ricordarti chi sei e qual è il tuo compito, perché nascere sulla Terra significa anche dimenticare.»
La Fata si avvicinò alla bimba e le sfiorò la fronte; alla bambina parve d’essere presa per mano e diventare leggera leggera. Un mondo meraviglioso si aprì ai suoi occhi. Per un attimo tutti i confini che conosceva sembrarono dissolversi e si sentì trasportata in una danza di colori cangianti.
In un battito di ciglia che pareva un’eternità si ritrovò nelle viscere della terra densa, dove rilucenti cristalli brillavano come stelle, poteva percepire il pulsare lento e caldo della Terra stessa, la sua forza, i suoi movimenti possenti, e poteva prenderne parte per sentire come la Terra sentiva. Percepì allora una vena d’acqua che sì faceva strada e filtrava verso la superficie, e nel seguirla divenne l’acqua stessa che zampillava gioiosa per ricadere al suolo e ancora confondersi nella terra.
Allora si ricordò chi fosse stata e cominciò, raggiante, a raccogliere i preziosi sali della terra disciolti in quell’acqua, per dirigerli verso le radici di una pianta lì vicina; seguì il percorso del prezioso nutrimento nelle radici e nel fusto della pianta, tracciando spirali pulsanti di luce e colori. Raggiunse il verde fogliame e si bagnò nella luce del Sole, catturandola con il respiro e, respirando e danzando, intrecciò Luce e Aria e Acqua e Terra tra loro, creando magiche correnti di vita, nella pianta e intorno ad essa.
Poi, dolcemente, tutto cessò; alla bambina parve di risvegliarsi abbracciata al grande albero alla vita del quale aveva partecipato danzando. Capiva finalmente perché si sentiva un po’ diversa dagli altri bambini. Capì di essere un tramite, un ponte, una soglia tra il Regno della Natura e quegli uomini che avevano dimenticato di fare parte della Natura stessa.
Le minuscole creature che l’avevano accolta, così come la Fata che le aveva spiegato tante cose, sembravano dissolversi nella luce del crepuscolo, ma la bimba ne udiva ancora chiaramente le voci: «Porta agli uomini la consapevolezza di ciò che non si vede ma è, di come tutto sia Uno, di come gli equilibri sono facili da spezzare se si agisce solo per il proprio personale tornaconto. Porta agli uomini il senso del rispetto per la Vita che permetta loro di utilizzare risorse preziose con saggezza. Porta agli uomini la bellezza dei colori che si vedono solo con gli occhi chiusi, la dolcezza del canto senza parole, il piacere della danza che intreccia le correnti d’amore tra il Cielo e la Terra e segue le magiche alchimie di trasmutazione che creano la Vita. Perché tutto è danza nell’Universo, e se qualcosa interrompe il flusso della danza della Natura, provoca la fine, la morte. Porta agli uomini questo messaggio e noi saremo sempre accanto a te e nel tuo cuore, e sarai felice.»
II Sole tramontava; la bambina, felice e appagata, si rivestì dei suoi abiti scendendo lungo il pendio con le scarpine in mano. Sapeva che sarebbe dovuta crescere d’età per portare quel messaggio agli uomini, e nel frattempo non lo avrebbe dimenticato. La Montagna era là a ricordarglielo ogni volta che lei volgeva ad essa lo sguardo, al tramonto.

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Il Monte degli Elfi (Andersen)

Vispe lucertole correvano tra le fenditure di un vecchio albero e si comprendevano bene tra loro, poiché parlavano tutte la lingua delle lucertole.
«Accidenti! Che brontolio proviene dal vecchio monte degli elfi!» esclamò una lucertola. «Con questo rumore non ho chiuso occhio per ben due notti; era proprio come se avessi avuto il mal di denti, perché anche in quel caso non dormo!»
«Sta succedendo qualcosa là dentro!» aggiunse un’altra lucertola. «Il monte si solleva restando appoggiato su quattro paletti rossi fino al canto del gallo, così si cambia l’aria, e le ragazze degli elfi hanno imparato a battere la cadenza con i ben cadenzati piedi in nuove danze. Sta succedendo qualcosa!»
«È vero! Ho parlato con un lombrico che conosco» disse una terza lucertola «era appena arrivato dal monte, dove per molti giorni e notti aveva scavato nella terra. Lì aveva sentito parecchie cose; quel povero animale non ci vede, ma può strisciare e ascoltare. Aspettano ospiti al monte degli elfi, ospiti distinti, ma il lombrico non vuole dire chi aspettano, o forse non lo sa nemmeno! Tutti i fuochi fatui sono stati chiamati per fare una fiaccolata, come la chiamano loro, e come brillano l’oro e l’argento! Ce n’è parecchio nel monte ed è stato esposto al chiaro di luna.»
«Chissà chi saranno gli ospiti?» si chiesero le lucertole. «Che cosa stanno preparando? Sentite che rumori! E che ronzio!»
In quel mentre il monte degli elfi si aprì e un’anziana donna degli elfi, senza schiena, ma altrimenti molto ben vestita, ne uscì sgambettando. Era la vecchia governante del re degli elfi, una sua lontana parente, e aveva un cuore di ambra sulla fronte. Le sue gambe si muovevano eleganti, tip, tip! accidenti come sapeva sgambettare! E arrivò fino alla palude dal nottolone.
«Lei è invitato al monte degli elfi per questa notte» gli disse «ma prima ci deve fare un grosso favore, deve preoccuparsi lei degli inviti. Deve pur fare qualche servizio, dato che non ha una casa sua! Verranno ospiti molto distinti, troll molto importanti, e per questo il vecchio re degli elfi vuole essere presente alla festa!»
«Chi bisogna invitare?» chiese il nottolone. «Ecco, al grande ballo può venire chiunque, persino gli uomini se sanno parlare nel sonno o fare qualcosa che rientra nel nostro genere. Ma per il primo banchetto c’è una rigida selezione, ci saranno solo i più distinti. Ho discusso col re degli elfi perché non volevo che venissero gli spettri. Il tritone e le sue figlie devono essere invitati per primi; non amano molto trovarsi all’asciutto, ma avranno certamente almeno una pietra bagnata su cui stare, o addirittura qualcosa di meglio. Così credo che questa volta non diranno di no. Devono anche esserci tutti i vecchi troll di prima classe con la coda, lo spirito del fiume e i folletti, e poi credo che non dovremo dimenticare la scrofa della tomba, il cavallo degli Inferi e l’orrore della cattedrale. È vero che fanno parte del clero e non hanno nulla in comune con la nostra gente, ma d’altro canto è il loro mestiere e poi sono quasi parenti e ci fanno spesso visita!»
«Bra!» esclamò il nottolone, e se ne volò via per portare gli inviti.
Le ragazze degli elfi già ballavano sul monte, e ballavano con lunghi scialli tessuti di nebbia e chiaro di luna: erano molto graziose, per chi ama quel genere di bellezza.
Al centro del monte c’era una grande sala pulita con molta cura; il pavimento era stato lavato con il chiaro di luna e le pareti erano state lucidate con grasso di strega, così ora brillavano alla luce come petali di tulipani. La cucina era zeppa di rane allo spiedo, pelli di serpi ripiene di dita di bimbi, insalata di semi di fungo, musi umidi di topo, e cicuta; c’era la birra della donna della palude, e il vino di salnitro brillante della cantina delle tombe. Tutto era di sostanza; chiodi arrugginiti e frammenti dei vetri della chiesa erano i confetti.
Il vecchio re degli elfi fece lucidare la corona d’oro con il gesso in polvere; era il gesso del primo della classe ed era stato difficile trovarlo, persino per il re! Nella camera da letto c’erano le tende alzate, fissate con saliva di serpe. C’era proprio un bel baccano!
«Adesso bisogna bruciare i crini di cavallo e le setole di maiale, poi credo di aver terminato il mio compito» esclamò la governante.
«Caro padre» chiese la figlia minore «posso sapere finalmente chi sono gli ospiti di riguardo?»
«Certo!» rispose il re. «Ora te lo dico. Due delle mie figlie devono tenersi pronte a sposarsi: ne darò certo via due in sposa! Il vecchio troll della Norvegia, che abita sull’antica montagna di Dovre e possiede molti castelli di scoglio costruiti su massi enormi, e una miniera d’oro che vale più di quanto si creda, viene quaggiù coi suoi due figli, che devono trovar moglie. Il vecchio troll è proprio un vero norvegese, onesto e distinto, allegro e semplice; lo conosco dai tempi in cui brindammo alla nostra amicizia. Era venuto allora a cercar moglie, ora è morta, era la figlia del re della scogliera di Møen. S’è preso una moglie di creta, come si usa dire! Oh, che voglia di rivedere il vecchio troll norvegese! Si dice che i figli siano maleducati e presuntuosi, ma può darsi che non sia vero, o che migliorino col tempo. Vediamo se li saprete sistemare voi!»
«Quando arrivano?» chiese una figlia.
«Dipende dal tempo e dal vento» rispose il re degli elfi.
«Viaggiano in economia. Verranno con la prima nave che passa. Io volevo che passassero dalla Svezia, ma il vecchio non si fida. Non è al passo coi tempi, e questo non mi piace molto!»
In quel mentre giunsero saltellando due fuochi fatui, ma uno era più veloce e arrivò prima. «Arrivano! Arrivano!» gridarono.
«Datemi la corona e mettetemi al chiaro di luna!» disse il re degli elfi.
Le figlie sollevarono i lunghi scialli e si chinarono fino a terra. Apparve il vecchio troll di Dovre, con una corona di getti di ghiaccio indurito e pigne d’abete lucidate, una pelliccia d’orso e un bel paio di stivali; i figli invece erano senza colletto né bretelle perché volevano apparire più moderni.
«Questa sarebbe una montagna?» chiese il più giovane indicando il monte degli elfi. «In Norvegia la chiameremmo una caverna!»
«Giovanotti!» commentò il vecchio «la caverna va in dentro il monte va in fuori. Non avete gli occhi?» L’unica cosa che li sorprendeva in quel luogo, osservarono, era il fatto di capire la lingua senza difficoltà.
«Non datevi arie adesso!» rispose il vecchio. «O finirete per sembrare immaturi.» Ed entrarono nel monte degli elfi dove si trovava una compagnia molto distinta, che si era riunita in fretta come fosse stato il vento a soffiarla là.
Per ognuno era stato apparecchiato con molto buon gusto. La gente di mare sedeva in grandi vasche d’acqua e sosteneva di sentirsi come a casa propria. Tutti erano molto ben educati, eccetto i due giovani troll norvegesi, che avevano appoggiato le gambe sul tavolo e credevano di poter fare qualunque cosa.
«Giù le gambe dal tavolo!» gridò il vecchio troll, e i figli gli obbedirono, ma solo dopo qualche tempo. Fecero poi il solletico alla loro vicina di tavolo con delle pigne d’abete che avevano in tasca, e si tolsero gli stivali per sentirsi più comodi dandoli in custodia alle donne.
Il padre invece, il vecchio troll era tutta un’altra cosa; raccontava così bene delle fiere montagne della Norvegia, delle cascate che precipitano bianche di schiuma, risuonando come un organo o come un tuono. Raccontava del salmone che risale la corrente, quando l’ondina suona la sua arpa d’oro, delle luminose notti invernali durante le quali le sonagliere risuonano e i ragazzi corrono con le torce accese sul ghiaccio tanto trasparente, che i pesci sotto di loro si spaventano. Sì, sapeva proprio raccontare! Tanto che la gente che ascoltava vedeva e sentiva le cose di cui lui parlava; le segherie sembravano funzionare davvero, i ragazzi e le ragazze cantare le canzoni e danzare i balli popolari tipici della valle di Halling.
A un tratto il vecchio troll diede un grosso e casto bacio alla governante degli elfi; un bacio molto fraterno, ma bisogna pensare che non sono neppure lontani parenti!
Le ragazze del monte degli elfi cominciarono a danzare, sia nel solito modo che battendo un piede, e questo genere di danza si addiceva molto alle ballerine. Infine ci fu una “danza artistica”, in cui ogni ballerino si esibisce in un assolo fuori dalle file. Accidenti! Come sapevano tendere le gambe, non si distingueva più la fine e il principio; non si capiva quali fossero le braccia e quali le gambe, si mescolavano come trucioli di serratura e ruotavano per la stanza tanto che il cavallo degli Inferi, stette male e se ne andò fuori.
«Brr!» esclamò il vecchio troll «Quante gambe! Ma che cosa sanno fare oltre danzare, tendere le gambe e fare le giravolte?»
«Adesso lo saprai!» rispose il re degli elfi, e chiamò la più giovane delle sue figlie; era così magra, e trasparente come il chiaro di luna, era la più raffinata tra le sorelle; mise in bocca uno stecchino bianco e immediatamente scomparve: questa era la sua specialità.
Il vecchio troll disse di non apprezzare una moglie che sapesse fare quella magia, e lo stesso senza dubbio pensavano i suoi figli.
La seconda sapeva camminare di fianco a se stessa come se avesse avuto l’ombra, cosa che gli spiriti non hanno. La terza era di un altro genere, aveva imparato alla birreria della donna della palude e sapeva lardellare i tronchi di ontano con le lucciole.
«Questa diventerà un’ottima donna di casa!» commentò il vecchio troll e brindò strizzando l’occhio, dato che non voleva bere troppo.
Dipoi giunse la quarta figlia, con una grande arpa d’oro su cui cominciò a suonare, ma non appena ebbe toccato la prima corda tutti sollevarono la gamba sinistra, dato che gli spiriti sono mancini, e quando vibrò la seconda corda tutti dovettero fare quello che voleva lei.
«Questa è una moglie pericolosa!» disse il vecchio troll, e i suoi due ragazzi uscirono dal monte perché si erano annoiati.
«Cosa sa fare la prossima?» chiese il troll.
«Io ho imparato ad amare i norvegesi» esclamò lei «e non mi sposerò se non andrò a abitare in Norvegia!»
Ma la sorella più piccola sussurrò al vecchio troll: «Dice così solo perché ha sentito in una canzone norvegese che, quando il mondo finirà le rocce norvegesi resteranno come monumenti del passato: è per questo che vuole andare lassù, perché ha tanta paura di morire.»
«Ah! ah!» rispose il vecchio troll «tranquillizzati! E cosa sa fare la settima e ultima fanciulla?»
«Prima c’è la sesta» gli disse il re degli elfi, che sapeva contare; ma la sesta non volle presentarsi.
«Io so solamente dire la verità alla gente» diss’ella «di me non importa a nessuno, e sono già abbastanza impegnata a cucirmi la camicia per la bara!»
Poi arrivò la settima e ultima figlia, che cosa sapeva fare? Sapeva raccontare delle storie, tante quante ne voleva.
«Qui vedi le mie cinque dita» le disse il vecchio troll. «Raccontami una storia per ognuno.»
La figlia del re lo afferrò per il polso e lo fece ridere finché gli venne il singhiozzo. Quando poi arrivò all’anulare, che aveva un anello dorato in vita come se già sapesse che ci sarebbe stato un fidanzamento, il vecchio troll esclamò: «Tieni ben stretto ciò che hai, la mano è tua. Io ti voglio prendere in moglie.»
La fanciulla rispose che mancavano ancora le storie dell’anulare e del mignolo!
«Le sentiremo quest’inverno» rispose il vecchio troll «e ci racconterai la storia dell’abete, della betulla, dei regali delle ninfee e del gelo che scricchiola! Vedrai quanto dovrai raccontare, perché nessuno lo sa fare bene lassù. Ci siederemo nella nostra stanza di pietra dove arde la legna, berremo l’idromele dai corni d’oro degli antichi re norvegesi, l’ondina me ne ha regalato qualcuno! Mentre saremo là seduti verrà a trovarci il folletto contadino, che canterà tutte le canzoni delle pastorelle di montagna. Sarà molto divertente! Il salmone salterà sulla cascata proprio contro il muro di pietra di casa nostra, ma non riuscirà a entrare! Vedrai come si sta bene nella vecchia e cara Norvegia! Ma dove sono finiti i miei ragazzi?»
Già, dov’erano finiti i due ragazzi? Correvano nei campi e spegnevano tutti i fuochi fatui, che stavano arrivando con calma per fare la fiaccolata.
«C’è bisogno di gironzolare così?» esclamò il vecchio troll. «Io ho trovato una madre per voi, ora voi potete prendervi una delle zie!»
Ma i ragazzi dissero che avrebbero preferito tenere un discorso o brindare all’amicizia, mentre di sposarsi non avevano alcuna intenzione. Perciò tennero un discorso, brindarono all’amicizia, e rovesciarono il bicchiere per dimostrare che avevano bevuto fino in fondo; poi si tolsero i vestiti e si stesero sul tavolo per dormire, dato che erano un po’ sfacciati.
Il vecchio troll danzò per la stanza con la sua giovane sposa; poi si scambiarono gli stivali, il che è più fine che scambiarsi gli anelli.
«Ora canta il gallo!» esclamò la vecchia governante, che badava alla casa. «Bisogna chiudere le persiane delle finestre per evitare che il sole ci arrostisca!»
E così il monte si richiuse. Fuori le lucertole correvano su e giù dall’albero spaccato e una disse all’altra: «Oh, come mi piace il vecchio troll norvegese!»
«A me piacciono di più i ragazzi!» replicò il lombrico, ma lui non ci vedeva, poveretto!

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ll Principe senza paura (F.lli Grimm)

 

C’era una volta un principe, che non voleva più star in casa di suo padre; e, siccome non aveva paura di nulla, pensò: “Voglio girare il mondo, così non mi annoierò e vedrò ogni sorta di cose.”
Si accomiatò dai suoi genitori e se ne andò; e camminava dalla mattina alla sera, senza badar dove lo conducesse la strada. E gli avvenne d’arrivare alla casa di un gigante, ma era così stanco che sedé davanti alla porta per riposare.
E mentre i suoi occhi vagavan qua e là, scorse nel cortile il gioco favorito del gigante: qualche palla enorme e dei birilli grossi come un uomo. Dopo un po’, gli venne voglia di giocare, rizzò i birilli e si mise a tirar con le palle; gridava e schiamazzava, quando i birilli cadevano, e si divertiva.
Il gigante udì il baccano, s’affacciò alla finestra ed avvistò un uomo non più alto degli altri, che pur giocava coi suoi birilli.
«Vermiciattolo!» gli urlò. «Come mai giochi coi miei birilli? Chi ti ha data la forza per farlo?»
Il principe alzò gli occhi, vide il gigante e disse: «Babbeo, credi forse di aver le braccia robuste tu solo? Io posso far tutto quel che mi garba.»
Il gigante scese, stupefatto lo guardò giocare e affermò: «Uomo, se sei di tal fatta, va’ e prendimi una mela dall’albero della vita.»
«Che vuoi farne?» domandò il principe.
«Non la voglio per me» rispose il gigante «ma la mia fidanzata la desidera: ho girato il mondo per lungo e per largo, e non riesco a trovar l’albero.»
«Lo troverò ben io!» declamò il principe. «E non so che cosa debba impedirmi di cogliere la mela.»
Il gigante dichiarò: «Credi che sia così facile? Il giardino dov’e la pianta, è circondato da una cancellata di ferro e là davanti sono accovacciate, l’una accanto all’altra, delle bestie feroci, che fan la guardia e non lasciano entrar nessuno.»
«Me, mi lasceranno entrare» sostenne il principe.
«Ma se pure arrivi nel giardino e vedi la mela sull’albero, non è però ancora tua: davanti c’è un anello e bisogna infilarci la mano, se si vuol raggiungere e coglier la mela, e finora nessuno c’è mai riuscito.»
«Ci riuscirò ben io!» proclamò il principe.
Prese congedo dal gigante e se ne andò per monti e valli, per campi e boschi, finché trovò il giardino incantato. Tutt’intorno erano accovacciate le belve, però stavano a testa bassa e dormivano. Non si svegliarono neppure al suo arrivo; ed egli le scavalcò, salì sulla cancellata e giunse felicemente nel giardino. Là in mezzo c’era l’albero della vita, e le mele rosse luccicavano fra i rami.
Egli s’arrampicò su per il tronco e quando fece per prendere una mela, scorse un anello appeso davanti al frutto; ci infilò la mano senza fatica, e colse la mela. L’anello si strinse al suo braccio, ed egli percepì una gran forza penetrargli all’improvviso nelle vene. Allorché ridiscese dall’albero con la mela, non si volle arrampicare su per la cancellata, sicché afferrò il gran portone, che alla prima scossa si spalancò con uno schianto.
Egli uscì; il leone disteso là davanti, s’era svegliato e lo seguì di corsa, non feroce e selvaggio, ma umilmente, come se il principe fosse diventato il suo signore.
Il principe portò al gigante la mela promessa e proferì: «Vedi, l’ho colta senza fatica.»
Il gigante era lieto che il suo desiderio fosse così presto appagato, corse dalla sua fidanzata e le diede la mela che aveva richiesto.
Ella era una bella e accorta fanciulla e, non vedendogli l’anello al braccio, espresse: «Non credo che l’abbia colta tu, se non vedo l’anello al tuo braccio.»
Il gigante asserì: «Non ho che da andar a prenderlo a casa.» E credeva fosse facile toglier con la forza ad uno così debole, quel che non voleva dare spontaneamente.
Gli chiese l’anello, ma il principe rifiutò.
«Dov’è la mela, deve esserci pure l’anello!» strepitò il gigante. «Se non me la dai di buona voglia, devi lottare con me.»
Lottarono a lungo, tuttavia il gigante non poteva nuocere al principe, rinvigorito dalla virtù magica dell’anello. Allora escogitò un’astuzia e disse: «La lotta mi ha fatto venir caldo, e anche a te; bagniamoci nel fiume e rinfreschiamoci, prima di ricominciare.»
Il principe, che non conosceva slealtà, si recò al fiume con lui; spogliandosi si tolse anche l’anello dal braccio e si tuffò nella corrente. Subito il gigante afferrò l’anello e corse via, però il leone, che si era accorto del furto, l’inseguì, glielo strappò di mano e lo riportò al suo signore.
Allora il gigante si nascose dietro una quercia e, mentre il principe era occupato a rivestirsi, lo prese a tradimento e gli cavò gli occhi. Ed ecco, il povero principe era cieco e non sapeva come aiutarsi.
II gigante si accostò di nuovo, lo prese per mano, come qualcuno che volesse guidarlo, e lo condusse in cima a un’alta rupe. Poi l’abbandonò e pensava: “Ancora due passi, e si uccide cadendo nell’abisso; ed io potrò levargli l’anello.”
Ma il leone fedele non aveva abbandonato il suo signore; lo trattenne per il vestito e a poco a poco, lo tirò indietro. Allorquando il gigante si recò a derubare il morto, constatò che la sua astuzia era stata vana.
“Che uno talmente debole non lo si possa mandar in malora!” disse fra sé rabbiosamente; prese per mano il principe e lo riportò all’abisso per un’altra via; e il leone, che s’accorse del malvagio proposito, salvò il suo padrone anche da quel pericolo.
Appena furono sull’orlo dell’abisso, il gigante abbandonò la mano del cieco e voleva lasciarlo solo; ma il leone gli diede una spinta, così ch’egli precipitò sino in fondo e si sfracellò. Il fedele animale allontanò nuovamente il suo signore dall’abisso e lo condusse vicino ad un albero, dove scorreva un limpido ruscello.
Il principe sedé e il leone si distese, e con la zampa gli spruzzò l’acqua in viso. Appena due o tre goccioline gli bagnarono le occhiaie, egli poté di nuovo veder qualcosa; poi intravide un uccelletto che gli passò ben vicino e che urtò sul tronco di un albero; la povera bestiola si lasciò cader nell’acqua, vi si bagnò, dipoi si alzò e volò rasente agli alberi, senza più urtarvi, come se avesse riacquistato la vista.
Il principe ravvisò il cenno divino, si chinò sull’acqua e vi bagnò il volto. E quando si drizzò, aveva di nuovo i suoi occhi, limpidi e chiari, come non eran mai stati.
Il principe ringraziò Dio per quel miracolo, e seguitò a girare il mondo col suo leone. Or gli avvenne di giungere a un castello incantato.
Sulla porta c’era una fanciulla, di bella persona e di viso leggiadro, ma tutta nera. Costei gli rivolse la parola ed esclamò: «Ah, se tu potessi liberarmi dal malefizio che han gettato su di me!»
«Cosa devo fare?» le chiese il principe.
La fanciulla rispose: «Devi passar tre notti nel salone del castello incantato, ma nel tuo cuore non deve entrar la paura. Se ti torturano atrocemente e tu resisti senza un lamento, io sono liberata: non possono toglierti la vita.»
Professò il principe: «Io non ho paura: tenterò, con l’aiuto di Dio.»
Entrò allegramente nel castello, e allorché si fece buio andò a seder nel salone e attese. Tutto tacque fino a mezzanotte, poi scoppiò all’improvviso un gran baccano, e da tutti gli angoli sbucaron piccoli diavoli.
Essi fecero finta di non vederlo, sedettero in mezzo alla stanza, accesero un fuoco e si misero a giocare. E chi perdeva, borbottava: «Non è giusto: c’è qui uno, che non è dei nostri; è colpa sua, se perdo.»
«Aspetta che vengo, tu, là, dietro la stufa!» faceva un altro. Le urla erano sempre più forti, e nessuno avrebbe potuto ascoltarle senza spavento.
Il principe restò tranquillamente seduto e non aveva alcuna paura, ma da ultimo i diavoli saltarono in piedi e gli si scagliarono contro; ed erano tanti, ch’egli non poteva difendersi. Lo trascinarono per terra, lo pizzicarono, lo punzecchiarono, lo picchiarono e lo torturarono, eppure non gli uscì un lamento.
Verso mattina sparirono, ed egli era così fiacco da non poter muovere un dito. Ma allo spuntar del giorno, gli s’avvicinò la fanciulla nera. Aveva in mano una boccetta con l’acqua della vita; lo lavò con quell’acqua, e subito egli sentì sparire ogni male e una forza nuova penetrargli nelle vene.
Ella disse: «Una notte l’hai superata felicemente, però ne hai davanti altre due.» Poi se ne andò, e mentre s’allontanava, egli vide che i suoi piedi eran diventati bianchi.
La notte dopo tornarono i diavoli, e ripresero il loro gioco; s’avventarono sul principe e lo picchiarono molto più crudelmente, così che il suo corpo era pieno di ferite. Ma siccome sopportò tutto in silenzio, dovettero lasciarlo; e appena spuntò l’aurora, comparve la fanciulla e lo risanò con l’acqua della vita.
E quand’ella se ne andò, egli notò con gioia che era tutta bianca, salvo la punta delle dita. Ora egli doveva superare ancora una notte, ma era la peggiore. I diavoli tornarono.
«Sei ancora qui?» sbraitarono. «Ti tortureremo da mozzarti il fiato.» Lo punzecchiarono e lo picchiarono, lo buttarono di qua e di là e gli tirarono braccia e gambe, come se intendessero squarciarlo: egli sopportò tutto senza un lamento.
Alla fine i diavoli si dissolsero, tuttavia egli giaceva immobile, privo di sensi: non poté neanche alzar gli occhi per veder la fanciulla ch’entrava e lo bagnava con l’acqua della vita. Ma d’un tratto scomparve ogni dolore, ed egli era fresco e sano come se si fosse svegliato dal sonno. E allorché aprì gli occhi, si vide accanto la fanciulla, bianca come la neve e bella come il sole.
«Alzati» diss’ella «e per tre volte brandisci la tua spada sulla scala, così tutto sarà liberato.» E quando egli l’ebbe fatto, tutto il castello era sciolto dall’incanto e la fanciulla era una sontuosa e ricca principessa. Entrarono i servi e dissero che nel salone, la tavola era preparata e il pranzo già servito.
Sedettero, mangiarono e bevvero insieme; e la sera furono celebrate, le nozze in gran tripudio.

“Il Principe senza paura, che grazie al suo coraggio e alla sua determinazione,
la pazienza… riuscì a salvare la sua Principessa…”

 

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Il Segreto della Vita

Lui era un figlio della Terra, innamorato della Vita e delle sue meraviglie. Risuonava con la bellezza del Creato e ne coglieva la magia e il mistero, traducendoli in poesia. Da sempre era in cerca, perché nulla riusciva davvero a saziarlo, e la libertà dai vincoli del mondo non gli bastava mai. Gli avvampava dentro un qualcosa senza nome, e come un antico cavaliere errante gli sembrava di aver antiche ferite che niente pareva lenire. O forse, pensava altre volte, era solo nostalgia. Ma di cosa?
Ogni tanto si sentiva come solo, scisso, separato da se stesso, o forse dalla Fonte che dà origine a ogni cosa… Soltanto la Natura, nel suo avvolgente abbraccio così simile all’amore di donna nel quale amava tanto immergersi, sembrava placare il suo desiderio bruciante, quasi avido, di conoscere e possedere. Per un poco. Dentro, sempre una smania di andare, di cercare, di conoscere ancora. Era come un assetato che non trovava acqua capace di placargli la sete.
Cercava nei boschi, sui monti, e dei suoi monti conosceva ogni recesso, ogni segreto. Dialogava con tutti gli Elementi e più e più volte si era intrattenuto in colloquio con distinti esponenti dei Piccoli Popoli, antichi Guardiani della Terra, ed aveva avuto accesso ai loro misteri. Ma ancora non gli bastava.
Il suo fuoco interiore e la sua sete di libertà e conoscenza lo spingevano lontano, sempre più lontano. La vita di ogni giorno lo legava con mille nodi e lui sempre sapeva scioglierli quel tanto che bastava per volare ai luoghi in cui rigenerare la sua anima. Ma la sete era tanta, sempre, ancora…
Un giorno i suoi monti presero a cantargli l’eco di montagne più impervie e lontane, oltre l’orizzonte a lui noto. Allora si mise in viaggio, ancora una volta. Risalì il corso dei fiumi, percorse intricati sentieri per giorni e giorni. Finalmente, al tramonto, giunse alla Montagna che sembrava vibrare chiamando il suo nome.
Era come casa. Un tal senso di appartenenza lo pervase che desiderò metter radici lì, come uno degli alberi maestosi che si ergevano di fronte a lui. Il vento sferzava le fronde mentre calava la notte silenziosa, la cima della vetta era ancora bianca di neve nonostante l’estate alle porte, e riluceva candida alla luce della luna che inondava il paesaggio di un chiarore soffuso e surreale.
L’uomo stava lì, senza parole né pensieri, e guardava la vetta. Oltre la fine del bosco, oltre la fine dei prati, l’uomo si spinse fino alla roccia nuda. Lì la parete offriva alla vista, nel chiarore dell’astro notturno, una piccola cascata, appena un velo d’acqua che scendeva dall’alto con suono cristallino. Forse, pensò, quell’acqua purissima gli avrebbe placato la sete dell’anima… Allungò una mano verso i riflessi argentei e la ritrasse svelto, con un tuffo al cuore. Non era solo.
Dal nulla, avanti a sé, tra lui e la cascata, una giovane donna era apparsa, quasi a proteggere quel santuario inviolato. Era diafana, eterea eppure regale nella minuta presenza. A lui sembrò che pian piano lei prendesse consistenza umana, quasi di carne. Ma non era una figlia della Terra, capì subito che apparteneva a una dimensione più sottile, leggera e luminosa, e come altri della sua mitica stirpe invisibile custodiva sulla Terra i segreti senza Tempo dell’Eterno.
La creatura gli rivolse, guardandolo ferma negli occhi, una muta domanda che a lui echeggiò potente nel cervello: «Cosa ti porta fin qui?»
«La mia sete…» rispose l’uomo, senza parole, e intanto sentiva un groppo in gola e risalirgli dentro un fuoco di passione, avido di lei e dell’acqua che lei custodiva.
La creatura aveva fattezze di donna, e come tutte le donne – custodi del segreto della Vita – era bella, bellissima e vicina, troppo vicina per non poterla toccare… Pareva così umana e insieme così divinamente irraggiungibile…e per questo doveva essere… sua.
Ancora una domanda di lei lo raggiunse dentro, arginando il suo slancio: «Cosa vuoi?»
Lui deglutì, e per un attimo pensò che quello era ciò che voleva… voleva lei, la desiderava più di ogni altra cosa al mondo, voleva accedere al suo Regno segreto, come gli antichi cavalieri che nei racconti spariscono agli occhi dell’umano mondo, per vivere eternamente giovani e per sempre liberi e guariti dalle loro ferite al fianco di creature fatate, più vicine al Divino… Si sentiva euforico, irresistibilmente attratto, ebbro d’eccitazione e d’amore. Finalmente la sua sete si sarebbe spenta, e quel fuoco dentro che lo consumava si sarebbe estinto, lasciandolo in pace. Si protese con slancio verso lei, voleva ghermirla con tutta la passione di cui era carico, ma lei lo precedé. Con un gesto della mano, semplice e fermo, lo arrestò, toccandolo al centro del petto.
Il tocco di lei aveva un calore sconosciuto e penetrava oltre le barriere della mente e del cuore. Era potente, delicato e struggente, quel tocco, e scioglieva col calore della compassione, di un Amore assoluto che tutto vedeva e comprendeva senza giudicare, senza porre condizioni. E nello stesso tempo, forse per quello, era scomodo.
L’uomo si sentì confondere e la guardò, sgomento e impaurito.
Lei lo teneva a sé tenendogli lo sguardo negli occhi, ed ancora la sua voce gli risuonò dentro: «Guardami. Cosa vedi nei miei occhi?»
«Vedo il mio riflesso… vedo il mio viso… me stesso.»
«Guarda oltre. Cosa vedi?»
«Vedo i miei occhi riflessi nei tuoi occhi…»
«Guarda ancora, oltre te stesso.»
«Vedo…»
E finalmente, oltre le immagini riflesse, l’uomo poté vedere il Vuoto, il vuoto nero, profondo e scintillante nelle pupille, varco illuminante in cui la forma spariva per lasciar spazio all’Essenza.
Lei continuò: «Sei pronto a lasciare le cose in cui credi? Le cose cui sei più attaccato, le cose che pensi di essere e avere? Non puoi varcare la Soglia altrimenti… nel mio Regno tutto è leggero… tutto è luce cangiante, equilibrio, amore, armonia… Non puoi portar altro che te stesso, e tu non sei ciò che credi… entra se vuoi, leggero, senza pesi e senza orpelli… entra, e lasciati fuori, e muori… muori… muori…»
La voce di lei continuava a risuonargli dentro… Morire!… La paura lo attanagliava… non aveva chiesto questo… La testa pareva scoppiargli mentre il corpo nonostante tutto ancora bruciava di desiderio. Dentro di sé sentiva mille e mille forze in conflitto che gli toglievano la forza stessa di combattere, e finalmente la battaglia gli consumò l’energia che gli restava. Cadde in ginocchio. Finalmente, esausto, comprese.
Come dall’alto, ora vedeva se stesso, e in un attimo colse tutta la sua pesantezza. Il peso della sua vita, il peso del desiderio, il peso di tutto ciò in cui si era sempre riconosciuto… Il peso di ciò che lo distingueva agli occhi suoi e degli altri, il peso della paura di perdere tutto, il peso stesso della sua ricerca che lo portava a cercare lontano una libertà che avrebbe trovato solo dentro di sé, abbandonandosi… Quello era il peso, l’ostacolo che si frapponeva tra lui, figlio della Terra, e il Regno dello Spirito al quale inconsapevolmente aveva chiesto l’accesso chiedendo di entrare nel mondo fatato… Non il peso del corpo che Madre Natura amorevolmente gli aveva dato, non il peso della sua umanità, non quello, ma un peso più insidioso e subdolo, quello dei pregiudizi e dei condizionamenti che non riusciva a lasciare, il peso delle sue e altrui aspettative e quello delle cose alle quali ogni giorno si attaccava, fossero esse cose che egli possedeva o in cui credeva ciecamente, o cose di cui si compiaceva… cose nelle quali si identificava, perdendo il senso e la prospettiva stessa della sua identità Reale, di quell’Essenza che andava oltre la forma e l’apparenza…Era quello che doveva morire, di sé, perché lui fosse finalmente libero…
Cercando un’illusione di appagamento e libertà aveva trascorso anni, e gli parevano secoli, lontano dal presente, e ora al Presente tornava, e veniva accolto. Nel tenue biancore silenzioso della notte illuminata, come un evento scritto e irrinunciabile si compiva finalmente l’incontro tra due mondi che avevano atteso di ritornare uno, poiché Uno erano sempre stati.
Piangeva, l’uomo, e le sue stesse lacrime erano l’acqua che gli placava la sete, mentre la febbre gli bruciava il corpo consumando ed estinguendo ogni desiderio. Era sfinito, sconvolto e affranto, eppure per la prima volta si sentiva in pace. Era come aver rimarginato in sé un’oscura ferita che separava la Terra e il Cielo, la Natura e lo Spirito… Una nuova leggerezza si faceva strada dentro di lui, con la consapevolezza di essere finalmente integro, non più scisso o separato dalla Fonte Originaria, ma appartenente ad essa eppure vivo e parte delle Natura terrena che amava…
E la voce di lei gli risuonò ancora, dentro: «…la libertà vera, Reale, è libertà da se stessi… solo questa dà libero accesso ad ogni Regno, ad ogni dimensione dell’Essere…solo così sarai sempre accolto…»
Mentre l’alba accendeva di rosa dorato la vetta, l’uomo si sentiva rinascere col nuovo giorno. Finalmente era libero.

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Il Sogno dell’Orsa

 

Un tempo sulla Terra c’era un luogo magico, una Valle incantata circondata da montagne altissime. Tra queste una, la più alta, aveva un cuore di Cristallo che raccoglieva e incanalava le energie purissime del Cielo, inviandole al centro della Terra e viceversa, creando un ponte essenziale alla vita e all’equilibrio di tutto il pianeta. Nella Valle regnava l’armonia tra gli uomini e gli Spiriti Guardiani della Natura, che erano continuamente rigenerati dal contatto con la Montagna dal cuore cristallino.
In quel tempo la Valle era sorvegliata da un’Orsa vecchia e saggia, che nei suoi sogni custodiva le risposte ad ogni domanda che poteva affiorare dal cuore degli uomini e degli Spiriti stessi. Quando qualcuno aveva domande, si rivolgeva all’Orsa; l’Orsa si metteva a dormire nella sua caverna e sognava, ed entrava nei sogni di chi aveva domande perché potesse sognare risposte.
Quando l’Orsa morì il suo Spirito, grande come il suo cuore, rimase nella Valle a vegliare e a sognare per la vita di tutti i suoi abitanti visibili e invisibili fino a che, come tante leggende, fu dimenticata. Allora non le rimase da fare altro che dormire un sonno senza sogni.
Venne il tempo in cui gli uomini, avendo dimenticato il legame sacro con la Natura ed i suoi Spiriti Guardiani, presero a devastare senza alcun rispetto il volto e il corpo della Terra, e nella Valle il cuore di Cristallo della Montagna alta e Sacra si offuscò per il dolore di quelle ferite. Anche in quel luogo le opere dell’uomo infransero l’armonia e ruppero l’incanto, deviando il flusso delle acque di Sorgenti Sacre ed alterando gli intrecci dei sentieri fatati, resi così inagibili agli Spiriti della Natura stessi. Gli Spiriti, non più rigenerati dal Cristallo della Montagna ormai offuscato, cominciarono a sentirsi venir meno a poco a poco, fino a svanire. Alcuni di loro, per non fare quella fine, scelsero di rifugiarsi nel profondo della Terra dove caddero in un sonno simile al letargo; altri decisero di nascere tra gli uomini stessi per riportarli alla consapevolezza dell’antica alleanza con la Natura; altri ancora rimasero coraggiosamente, ma erano pochi e troppo deboli per governare gli Elementi di una Natura che, sofferente e martoriata su tutto il pianeta, con i suoi spasmi di dolore provocava catastrofi sempre più frequenti.
La Terra gemeva, la Terra reagiva, e i suoi Spiriti Guardiani di un tempo si sentivano impotenti di fronte agli Elementi stessi, diventati incontrollabili e quasi impossibili da gestire. Il cuore di Cristallo della Montagna Sacra, essendosi offuscato, non riusciva neanche più ad armonizzare le energie celesti e quelle terrene, e la Terra non poteva guarire. Allora gli Spiriti si ricordarono dello Spirito dell’Orsa che dormiva senza sogni, e le chiesero aiuto. E l’Orsa, felice di essere stata chiamata, sognò.
Sognò che per guarire la Terra bisognava risvegliare il potere della Valle e tutti gli Spiriti Guardiani in essa addormentati, sognò che per far questo occorreva richiamare nella Valle tutti quegli Spiriti che l’avevano lasciata per nascere tra gli uomini e far battere all’unisono i loro cuori; sognò, infine, che bisognava far risplendere e vibrare ancora il cuore di Cristallo della Montagna Sacra perché tornasse ad essere ponte tra la Terra e il Cielo, in modo che la Terra potesse guarire e gli Spiriti della Valle risvegliati potessero vivere e rigenerarsi.
L’Orsa sognò, ed entrò nei sogni di alcuni bambini che un tempo erano stati Spiriti Fatati della Valle, e i bambini sognarono una Festa. E la Festa richiamava altri bambini a migliaia, e tra essi tutti quelli che un tempo erano stati Spiriti Guardiani della Valle anche se non ne avevano memoria. L’Orsa sognò i suoni della Festa, i suoi canti, le sue le danze, le sue musiche; sognò quei suoni insieme al suono dei tamburi che faceva battere all’unisono tutti i cuori dei bambini riuniti intorno ai fuochi; sognò che il suono del battito dei cuori dei bambini giungeva al profondo della Terra e risvegliava gli Spiriti in essa addormentati, perché tornassero a svolgere in armonia e leggerezza i loro compiti di Guardiani della Natura e dei suoi Elementi.
Restava solo da guarire il cuore di Cristallo della Montagna più alta e Sacra. E l’Orsa sognò ancora, e sognò che bisognava cantare alla Montagna perché il suo cuore cristallino si sciogliesse dal dolore e ritornasse puro e trasparente; sognò che il suono da cantare era il Nome Sacro e Segreto che un bambino, memore di essere stato Elfo, custodiva nel suo cuore; sognò infine che quel Nome, per guarire la Montagna, doveva essere cantato dalla voce di una certa bambina che un tempo era stata Fata in quella Valle, e che ora vi era stata richiamata. L’Orsa sognò che l’Elfo e la Fata, rinati nel regno umano per portare agli uomini la consapevolezza della necessaria armonia con tutti gli esseri viventi, da bambini molto giovani si erano già incontrati una volta: allora, la bambina aveva regalato al bambino un cristallo nero, di un nero purissimo più nero della notte e del vuoto, che poteva racchiudere in sé miliardi di stelle ed universi segreti.
Adesso, il bambino un tempo Elfo e la bambina un tempo Fata si incontravano ancora nel sogno dell’Orsa, mentre la Festa di risveglio riportava alla vita tutti i loro fratelli e compagni fatati ed impalpabili, riunendoli a quelli ora incarnati in un corpo umano tangibile. Ma il bambino non voleva aprire il suo cuore alla bambina che avrebbe dovuto leggervi il Nome segreto per cantarlo alla Montagna, e non voleva perché sapeva che quel Nome è quanto di più sacro ed intimo vi sia, e racchiude l’essenza ed il potere di chi lo custodisce.
Allora l’Orsa sognò ancora, sognò il cristallo nero che la bambina Fata aveva dato al bambino Elfo, e sognò che quel cristallo era il cuore stesso della bambina, cuore di cui lei gli aveva fatto dono un tempo. La prima parte di un equo scambio era già avvenuta, ed il bambino poteva sentirsi al sicuro: una volta che la bambina avesse cantato il suo Nome alla Montagna per guarirne il cuore, egli poteva scegliere di custodire il cristallo nero e stellato nutrendo fiducia nella bambina e nella sua capacità di preservare il segreto, oppure infrangerlo. Se l’avesse infranto, la bambina sarebbe svanita dal regno umano per tornare tra gli Spiriti fatati Guardiani della Valle, e non avrebbe mai potuto rivelare quel Nome ad altri, e il Nome sarebbe rimasto per sempre segreto.
E ancora l’Orsa sognò, sognò il bambino che risplendeva mentre apriva il suo cuore cristallino, puro e limpido alla bambina, e la bambina che riluceva cantando e danzando alla Montagna quel Nome in esso custodito.
Come col battito del loro cuore i bambini alla Festa risvegliavano gli Spiriti della Natura dormienti ridando loro la vita e il potere, così col dono dei loro cuori il bambino un tempo Elfo e la bambina un tempo Fata restituivano un cuore puro e trasparente alla Montagna Sacra, un cuore libero dal dolore delle ferite, un cuore guarito e in grado di guarire la Terra e i suoi abitanti visibili e invisibili: un cuore di Cristallo terso e limpido, capace di far vibrare in risonanza Cielo e Terra per sempre in armonia.
E da quel giorno, per sempre felice, l’Orsa sognò, e sognò, e sognò…

Dedicato all’Orsa che sogna, all’Elfo e alla Fata,
bambini che sono dentro ciascuno di noi

 

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Il tesoro delle Fate

 

(Leggenda Svizzera)

A quei tempi la valle del Gerina, era la più bella delle Alpi svizzere, con succulenti pascoli e campi fertilissimi, tanto che la chiamavano «La verde». Nel mezzo v’era un grazioso laghetto, e sulle rive del lago, un villaggio lindo e civettuolo.
Il proprietario dei pascoli e dei campi si chiamava Aimone, ed era un uomo di vecchio stampo, legatissimo alle tradizioni, cordiale, generoso, galantuomo sino allo scrupolo, e perciò benvoluto da tutti.
Si sosteneva che la prosperità del luogo, fosse dovuta alla particolare protezione delle Fate, che abitavano in una caverna sulla roccia sovrastante la vallata. Certo è, che Aimone faceva collocare ogni mattina, un secchio di latte su un’enorme pietra a forma di altare, che era disposta proprio sotto la rupe, e qualche minuto dopo, il secchio appariva vuoto. Chi lo vuotava, e come?
Nessuno era riuscito mai a saperlo, giacché finché qualcuno rimaneva lì vicino al secchio a spiare, il secchio rimaneva pieno. Il padrone d’altronde, aveva lanciato terribili minacce contro coloro che si mostrassero in proposito, troppo curiosi; ed ognuno sapeva, ch’egli era un uomo da mantenere ciò che prometteva.
Ma un giorno Pietro, il figlio del padrone, un giovinetto di forse quindici anni, volle penetrare il segreto di quel latte che scompariva così misteriosamente, e appena il secchio fu posto sulla pietra, egli si mise lì di guardia e vi restò tutto il giorno.
A sera, il secchio era ancora pieno, ma il latte s’era guastato e si dové buttar via. Quello stesso giorno, morì la più bella capretta del gregge, la preferita di Pietro.
Quando questi tornò a casa, il padre lo chiamò nella sua camera e, chiusa la porta e la finestra affinché nessuno udisse, gli parlò in tono grave: «Ascoltami bene, figlio mio. Tu non sei più un bambino ormai, e certe cose le puoi capire. Per fartele capir meglio, ti svelerò un segreto che si è conservato per secoli nella nostra famiglia, trasmesso da padre in figlio. Tu conosci il Rubly, la roccia che domina la nostra vallata, e sai che circa alla metà di essa si apre una grotta: là dentro abitano da secoli, due Fate che proteggono la nostra famiglia e la nostra alpe. In ricompensa di questa protezione, ogni mattina faccio portare sulla pietra che sai, un secchio di latte. Sono le Fate che scendono a prenderlo e lo bevono, è l’unico loro nutrimento. Ma guai a colui che volesse impedire alle Fate di prenderlo, guai al temerario che osasse esplorare la loro grotta! Tu oggi hai commesso appunto il primo di questi sacrilegi, e stasera la tua capretta favorita è morta. Ti consiglio or dunque, di non voler ripetere più il tuo atto insano.»
Pietro, stupito per le parole che udiva, passò tutto il giorno seguente a guardar di lontano la roccia, e la caverna che vi si apriva a metà; e a furia di fissarvi lo sguardo, gli parve di vedere infatti due forme bianche e leggiadre, fluttuare nel sentiero verdeggiante che menava alla grotta. Da quel giorno credé fermamente alle Fate della Verde, e si sarebbe guardato bene dal tentare ancora l’esperimento che gli era costato già, la perdita della capretta favorita.
Trascorsero gli anni, e Pietro divenne un bel giovane, laborioso e aitante. Tutte le ragazze del villaggio lo avrebbero voluto per marito, ma egli pareva insensibile alle loro grazie e alle loro moine. Tuttavia venne il momento anche per lui, d’innamorarsi.
Era capitata in paese una bellissima fanciulla forestiera, a nome Iolanda. Si vociferava che venisse dalla città, e che fosse figlia di un signore, i suoi modi erano assai più gentili di quelli delle valligiane, ed anche la sua bellezza aveva qualcosa di più fine e delicato. Pietro avrebbe dato chissà cosa per sposarla, ma la ragazza si mostrava restia alle nozze, ed ogni volta che il giovane gliene aveva parlato, ella, severa, aveva deviato il discorso.
Un giorno, un pastore sceso dai monti che sovrastano la valle, aveva donato a Pietro uno strano ciottolo molto pesante, di tinta nerastra, con certe venature che, a guardarle da certi punti di vista, luccicavano come pagliuzze d’oro. Pietro aveva mostrato gioioso il ciottolo alla bella Iolanda, che nel vederlo si era istantaneamente trasfigurata.
«Ascolta, Pietro» gli aveva asserito. «Se tu riesci a trovare la miniera d’oro che è certamente nel Rubly, io ti sposerò. Ma non tentar neppure di cercarla da solo, esporresti inutilmente la tua vita, e morresti come i tanti che ti hanno preceduto. Bisogna che nelle ricerche ti guidi una Fata. Sai tu, se in questo paese ce ne siano?»
«Si» rispose impudemente il giovanotto, assai speranzoso. «Ne conosco due.»
«Ebbene, eccoti una preghiera magica che costringerà le due Fate che tu conosci, ad indicarti la miniera.» E cosi dicendo, tirò fuori dal seno una pergamena scritta mediante caratteri dal color vermiglio, e la porse a Pietro.
Che lotta fu, quella che sconvolse per i tre giorni successivi il cuore del povero ragazzo! Da una parte c’era il rispetto dovuto alle Fate protettrici della sua famiglia e della vallata (come avrebbe osato far loro violenza?); dall’altra parte, c’era il suo folle amore per Iolanda.
Vinse, si sa, l’amore.
Sicché, in una fosca notte d’estate (grossi nuvoloni si rincorrevano nel cielo), il giovane partì per la montagna. La pergamena, gli bruciava le dita.
Arrivato che fu sul sentiero che conduceva alla caverna delle Fate, dové fermarsi, perché il cuore gli batteva forte forte. Poi riprese cautamente il cammino, e giunse all’ingresso della grotta che nessuno finora aveva mai violato. Accese una torcia a vento, e si mise a leggere la formula magica trascritta col sangue sulla pergamena.
Ma, appena ebbe pronunziate le prime parole, l’intera montagna cominciò a tremare dalle fondamenta, un fragore terribile uscì dal profondo dell’antro e si ripercosse per tutta la valle; lampi squarciavano il cielo, e la rupe, oscillando sulla sua base, precipitò con spaventoso fracasso sui prati sottostanti.
Allorquando sorse l’alba, illuminò uno degli spettacoli più tragici di desolazione: i bei pascoli della Verde erano spariti, e al loro posto v’era un terreno squallido seminato di macigni, e di sassi di tutte le dimensioni.
Di Pietro non si seppe più nulla, non si riuscì nemmeno a ritrovare il suo cadavere.

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L’Amore e la Follia

Si racconta che una volta, tanto tempo fa, tutti i sentimenti, le qualità e i difetti dell’uomo si riunirono.
Dopo che la Noia aveva sbadigliato per l’ennesima volta, la Follia propose di giocare a nascondino.
La Curiosità domandò: «A nascondino? E come si fa?»
«È un gioco» spiegò la Follia. «Io mi copro gli occhi ed incomincio a contare fino a un milione. Voi intanto vi nascondete, e quando non c’è più nessuno in giro ed io ho finito di contare, il primo di voi che trovo, rimane al mio posto a fare la guardia per proseguire il gioco.»
L’Entusiasmo ballò, seguito dall’Euforia e dall’Allegria, e fece tanti salti, che finì per convincere il Dubbio e l’Apatia, la quale non aveva mai voglia di fare nulla.
Ma non tutti, vollero partecipare…
La Verità preferì non nascondersi (…), la Superbia disse che era un gioco molto sciocco, e la Codardia preferì non rischiare.
«Uno, due, tre…» incominciò a contare la Follia. La prima a nascondersi fu la Pigrizia, che si nascose dietro la prima pietra del cammino. La Fede salì in cielo e l’Invidia si nascose dietro l’ombra del Trionfo, che era riuscito a salire in cima all’albero più alto.
La Generosità invece non riusciva a nascondersi, ogni posto che trovava lo lasciava ai suoi amici. Un lago cristallino? Ideale per la Bellezza. Un cespuglio? Perfetto per la Timidezza. Un soffio di vento? Giusto per la Libertà.
Infine, la Generosità decise di nascondersi dietro un raggio di sole. L’Egoismo invece si prese subito il posto migliore e superconfortevole, tutto per lui. La Bugia si nascose… veramente non si sa dove, la Passione e il Desiderio si nascosero nel centro di un vulcano. La Dimenticanza… non ce lo ricordiamo!
Quando la Follia giunse a contare fino a 999.999, l’Amore ancora non aveva trovato un luogo per nascondersi, perché erano tutti stati occupati. Alla fine vide un roseto e decise di nascondersi lì, fra le bellissime rose.
«Un milione!!!» urlò la Follia, che iniziò immediatamente a cercare. La prima a farsi scoprire fu la Pigrizia, poi la Fede, la Passione e il Desiderio, che essa aveva sentito vibrare dentro il vulcano.
Trovò in seguito l’Invidia, che si era nascosta dove stava il Trionfo.
Camminando, vicino al lago trovò la Bellezza; poi il Dubbio, il quale in realtà, non aveva ancora deciso dove nascondersi, e uno dopo l’altro incontrò tutti i restanti, tranne l’Amore.
La Follia iniziò a cercarlo dietro ad ogni albero, sotto il ruscello, in cima alla montagna… ed allorché fu sul punto di darsi per vinta, intravide il roseto e cominciò a muovere i rami, quando all’improvviso, si udì emergere un doloroso grido.
Le spine avevano ferito negli occhi, l’Amore… La Follia non seppe cosa fare e come domandargli scusa. Pianse, pregò, implorò e chiese perdono.
Da allora, da quando per la prima volta sulla terra si giocò a nascondino, l’Amore fu cieco e la Follia non lo lasciò mai più.

 

 

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Possa la strada venirti incontro,

possa il vento sospingerti dolcemente.

possa il mare lambire la tua terra

e

il cielo

coprirti di benedizioni.

Possa il sole

illuminare il tuo volto

e

la pioggia

scendere lieve

 

 sul tuo tempo.

Possa Iddio

tenerti

sul palmo

della Sua mano

fino

al nostro prossimo

incontro.

(Benedizione Celtica)